
http://spazioinwind.libero.it/letteratura/racconti/pensierik.htm
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Il cinema è la forma d'arte che mi piace di più, perché ci sono più rumori. Mi piacerebbe girare un film e raccontare la mia decadenza, inserendola nelle decadenze varie e più o meno tremende del mondo.
I pochi rumori sani, quelli più popolari, seppelliti dal caos. Non mi fraintendete, non immagino il suono di un ruscello seppellito da quello delle auto, o il canto di un contadino e un disco house, piuttosto figuro nella mente il rumore del mare e un'angosciante sirena di antifurto, il vagito di un bambino e la raffica di un mitra. Napoli 2000:
un ragazzo-uomo di circa trent' anni è alla ricerca di un "centro di gravità permanente", deambulando come un pazzo, fra un misticismo distante e una meschinità fatta di piccole guerre intestinali contro chiunque, dalla suocera al salumiere.
E' chiaro che quel ragazzo sono io. Pero' nel film mi vorrei un po' più bello, più... eroe e soprattutto estremo.
E' chiaro che quel ragazzo sono io. Pero' nel film mi vorrei un po' più bello, più... eroe e soprattutto estremo.
Il passato di questo ragazzo-uomo non ha nessun'importanza: non ci sono guerre, né conversioni, tossicodipendenze o fughe violente; nessun fallimento e nessuna vittoria.
Una memoria priva di volti, di sguardi veri: segni indelebili di grandi passioni e di ferite sanguinolente sempre aperte, ma sullo sfondo, solo una ridda confusa di voci lontane.
Qualche amico perso per strada o troppo ingrassato per essere frequentabile. Voli di testa, qualche eroico sforzo di sognare e molti traslochi.
Una sostanziale pigrizia lo ha accompagnato nei conformistici percorsi della sua vita di questo fine millennio. Un'infanzia triste ma non infelice, un'adolescenza turbolenta ma non troppo, una laurea mediocre, una vita sessuale nella norma, una socialità da "strada" come tante altre.
Non è un intellettuale, ma neanche un robotizzato. Legge tutti i giorni il Corriere della sera partendo dall'ultima pagina, soffermandosi molto sullo sport.
Il film, sospeso nell'arco del primo anno del nuovo millennio, racconta gli incontri più o meno casuali del nostro ragazzo-uomo, le sue brevi riflessioni a voce bassa con se stesso, il suo senso di impotenza.
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Esterno, notte, Piazza Santa Maria la Nova: ai tavolini di un bar tre ragazzi-uomini guardano le passanti. Uno e' il nostro eroe, gli altri sono il suo migliore amico Pippo e Andrea rampollo semioccupato di una ricca famiglia napoletana.
Pippo e' l'unico dei tre veramente lavoratore: medico, esercita in un grande ospedale nel reparto di ginecologia, dove e' primario suo padre.
Non ha una gran passione per la medicina ma, consapevole di non avere affatto passioni, ha seguito la via più comoda.
Andrea si nutre di cibi surgelati precotti, ama l'informatica e la pornografia, ma con il suo pedigree più che il programmatore vorrebbe fare il manager. Intanto vivacchia di qualche consulenza e di oboli familiari. Stranamente abita da solo, in una casa deliziosa nel centro della città, dove una troietta arrampichina, aveva tentato di piazzare le sue tende.
Anche Pippo è appena uscito da una storia con una trentacinquenne nevrotica, dall'apparato riproduttivo che non chiedeva altro che un seme, bella, ma nella sua eterna adolescenza, già violentemente appassita.
Il nostro eroe è in libera uscita, dei tre è l'unico sposato con prole, non invidia assolutamente la libertà dei suoi amici che a loro volta non si rodono per la "normalità" del nostro eroe.
Forse sono soltanto invidiosi degli attimi altrui... una buona parmigiana, una domenica mattina veramente oziosa, uno sguardo felino da cui aspettarsi qualcosa, una manina in faccia...
Ma e' soltanto un leggero rimpianto, come il ricordo di un trapano da dentista, la birra rende i loro mondi vicini, la loro mostruosa incompiutezza sfumata.
Ad inquadrarli dall'alto sono belli, con visi spavaldi e fieri, tre facce interessanti in una piazza affollata di gente, che certamente ha avuto qualcosa per cena.
Passando però ad una ripresa ravvicinata, salta fuori, dai loro volti da pirata, il loro sguardo, occhi puntati sul nulla, su un tempo eterno e sempre maledettamente uguale.
In questo preciso attimo sono consapevoli che la storia scorre altrove.
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Viola non è una ninfomane, ha si una certa capacita di saltare nei letti altrui con disinvoltura, ma non è malata di sesso.
Non ha un lavoro vero, vive tra Londra e Napoli tentando di ingarrare qualche mossa. Trentaquattro anni, troppi per iniziare un lavoro, forse pochi per rinunciare al suo grande sogno: esprimere qualcosa attraverso il corpo, non proprio con il ballo, a quello ha rinunciato da anni, ma qualche suo parente.
Non è bella, ha una faccia spigolosa, quasi da bambina su un corpo molto formoso per essere quello di una ballerina.
Sono ormai tanti anni che non ha una storia vera, dopo quella con Mario, vecchio amico del nostro eroe.
L'incontro avviene per strada, verso le cinque del pomeriggio. Il nostro eroe è di rientro da un banalissimo servizio fotografico: ritratti ad un imbottigliatore di bevande analcoliche per una rivista economica milanese. L'imbarazzo non e' dato da qualche indimenticabile scopata, ma da una specie di antipatia reciproca che con gli anni è diventata un sentimento strano. I due non sanno mai se essere affettuosi o freddi e anche se i loro incontri sono sempre più rari e casuali, riescono comunque a creare una sorprendente tensione che li rende sgradevoli.
Questa volta è diverso, una corrispondenza di sensazioni li pone sulla stessa lunghezza d'onda. Il tempo di fumarsi una sigaretta per strada e si sono epidermicamente raccontati tutto.
Come due reduci da guerre mai combattute i due amici si mostrano i primi capelli bianchi, con un'intimità nuova. La strana capacità di dare le cose per scontate, propria degli spiriti affini.
Il tempo a loro disposizione è finito, il nostro eroe deve correre alla posta per spedire il servizio del megaimbottigliatore, prima delle sei, ha l'obbligo, infatti, di farlo arrivare a Milano il giorno dopo, anche se sarà pubblicato tra più di un mese.
Viola è contenta dell'incontro, ma entrambi sono troppo pigri per modificare il concetto che hanno dell'altro. Cosi il loro saluto diventa un addio...
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Lella è la tata del nostro eroe. Una delle tante vecchine piegate in due dagli anni che circolano per le nostre città. Bassa, magra, con i capelli corti ancora neri e lo sguardo profondo, di chi ha avuto una vita tutta in salita.
Viene dalla periferia est della città, alle spalle una famiglia disastrata, come nella norma per quella zona che non è riuscita ad inaridire il suo cuore.
Lella è ricoverata al "Loreto mare", così piccola e immateriale in quel letto d'ospedale somiglia ad un'anonima madre Teresa di Calcutta.
Due braccia di bambina escono dalle lenzuola rigide e abbracciano il nostro pupone con un calore e un rispetto immeritati.
"Alcune cose sono gratuite o non sono..."
Ma chi la ripagherà mai per la sua vita?
Il nostro eroe conosce bene l'ospedale, ci è andato varie volte e sempre per fatti di cronaca nera. Infatti, l'ospedale si trova nella zona di Piazza Mercato, una delle peggiori della città. Una palazzina orribile meta di un'umanità rumorosa e dolente. La strana sensazione di trovarsi li' senza l'altezza di una qualsiasi professione gli elimina ulteriormente le difese.
Disarmato al dolore e a tante deformi emozioni, al nostro eroe viene in soccorso un Dio sconosciuto.
Sente improvvisamente i tasselli di un puzzle impazzito, riordinarsi.
I cocci della vita, della morte, dell'amore ritrovarsi e collocarsi in un posto preciso del pensiero. E' un attimo di estrema armonia che e' già svanito durante il tragitto per casa.
Torna l'angoscia di un debito "insaldabile", gli tornano alla mente tutti i chiodi sospesi, con la propria esistenza e quella di chi lo ha amato.
Lella in quel letto, sola, senza una vita sua da difendere, alla quale attaccarsi, confusa nei dati statistici di medici di cui non conosce il nome.
La notte è lugubre e fredda, i colori della città svaniscono e scompaiono le orribili costruzioni del Mercato.
Il traffico e' lento e indisciplinato, qualche coppietta sfreccia in motorino, sfiorando lo specchietto retrovisore già scassato.
La mente vaga lontano...
Lella sorridente con un bambino imbronciato per mano.
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Un giorno qualche anno fa, un grande artista chiacchierava con un giovane fotografo mentre quest'ultimo lo ritraeva. Con l'umiltà, propria dei grandi, gli disse: " caro mio, se vuoi fare un cazzo qualsiasi nella tua vita, devi imparare a crescere, non ad invecchiare".
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Ascensore di Chiaia, una sorta di ascesa agli inferi: collega l'elegantissima e commerciale Via Chiaia, agli sfigatissimi Quartieri spagnoli.
Ore 19,20, il nostro eroe e' di rientro a casa, è bagnato di pioggia e sudore, non pensa a nulla e non ha voglia di parlare, invece c'è il solito tossico che borbottando, attacca bottone.
"I napoletani non sono furbi, sono scemi. Io lavoro a Milano, debbo stare 15 giorni a casa, ma forse parto domani, non resisto. Prima erano aperte anche le scale quando l'ascensore era rotto e la notte, poi quelli scemi dei tossici le hanno fatte chiudere. Ma non lo capiscono che se si fanno o imbrattano un muro, quelli, i signori, non se ne importano?
Quelli sono nelle loro ville a Posillipo, mentre io stamattina per andare all'ospedale ci ho messo quattro ore. Che schifo."
Finalmente si apre la porta dell'ascensore. Sperando di rimanere solo il nostro eroe già pensa a un bagno caldo, ma il tossico percorre la stessa strada; il passo e' svelto, ma il dialogo inevitabile.
Tossico: io qua ci sono nato. Cazzo, anche il clima è cambiato.
Eroe: vero... io ci abito, sono in vico Solitaria. Tu?
Tossico: io non ricordo il nome della strada, il secondo vicolo a destra su per Pizzofalcone.
Eroe: ma e' dove abito io, no scusa, il mio è il terzo.
Tossico: sti scemi cambiano ogni "tre e quattro" il nome delle strade.
Eroe: allora auguri...
Tossico: voglio fare una sorpresa a mia madre, non mi aspetta mica.
Eroe: allora ciao...
Tossico: pensa come ci rimane. Sono, credo, due anni che non mi vede. Io qua non so che fare, prima da bambino giocavo tutto il giorno, ma ora ho tanto da fare... chissà mamma cosa ha preparato per cena... ho una fame...questa zona adesso fa schifo...prima era un favola...vedrai piove... tutto il santo giorno in quel maledetto ospedale...ho chiesto perché l'autobus non passava mai... è una tratta poco usata... con quel cazzo di enorme ospedale, come fa a essere poco usata?
Il vicolo è male illuminato, i due sembrano amici che chiacchierano, un incontro causale di due lavoratori di rientro da eroiche fatiche, con il tossico che ha voglia di parlare e il nostro eroe che smania di fare un bagno caldo.
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La morte è fredda e buia...
Domenica mattina, ore 11,30, il nostro eroe scende Via Gennaro Serra con il figlio per mano. Il sole è piacevole e l'aria limpida. Uscendo dal vicolo ombroso, la sensazione di vedere Piazza del Plebiscito splendente stampa un sorriso complice, sulle labbra del padre e del figlio.
In lontananza vede una sagoma familiare: è il fratello maggiore, che facendo il suo solito giro domenicale, arriva alla Feltrinelli dove compra un libro.
Un incontro fortuito è sempre festeggiato con un caffè. I tre si dirigono al bar più assolato e meno affollato. Fratello: sono stato da papà al cimitero questa mattina.
Eroe: io non ci sono mai stato, eppure sono quasi due anni. A me quel posto non rappresenta niente. Io mi faccio cremare o mi faccio seppellire nel cimitero di campagna del paesino di mia moglie.
Fratello: la prima volta che ci sono andato ho avuto la chiara percezione di cosa fosse la morte: fredda e buia. Al cimitero non vado per continuare un dialogo con papà...il mio è un periodico pellegrinaggio nel significato della morte; niente più del cimitero di Napoli te la fa percepire cosi com'è, fredda e buia.
Eroe: vorrei che venirmi a trovare "li" per mio figlio fosse una specie di " cosa allegra". Una passeggiata nel verde, il sentire un affetto grande nei luoghi, negli odori, nella freschezza di un vento leggero...non in una assenza straziante. Angoscia e solitudine svanire nell'allegria di una giornata di festa, nel pensiero di un ragù con le tracchie, nella gioia di un bel ricordo.
Fratello: quei fiori di plastica, le urla indifferenti dei "beccamorto", tutta quella folla di morti e di vivi alla ricerca di un improbabile incontro. Hai ragione, è come "un non posto", un luogo dove non si riposa, si soffre.
Eroe: per voi cattolici può essere importante anche "un non posto", ma per noi in bilico, senza paradisi e' straziante.
Finito il caffè i due fratelli si salutano, il nostro eroe coglie una vena di adulta malinconia nello sguardo dell'altro. Improvvisamente gli sembra di riconoscere nel fratello l'immagine del padre una domenica mattina di tanti anni fa...
Guarda il figlio un po' annoiato e sorride.
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Oggi il nostro eroe aspetta due telefonate. E' sicuro che se esce perderà i lavori, così se ne sta seduto vicino al telefono.
La giornata e' fredda, un ostile vento s'infila attraverso le fessure della porta, tutto fa pensare all'inverno. Seduto al computer, ingobbito e incazzato, tenta di abbozzare un tentativo di riordino generale del suo archivio.
Per molti fotografi archiviare e' importante, lui è anni che non lo fa, ogni tentativo si perde in uno sbadiglio, un'atarassia senza fine.
Anche questa volta solo buoni propositi.
Gioca un po' al campo minato, naviga senza meta su internet, decide di trascrivere i numeri di telefono dall'agenda vecchia a quella nuova, niente,
non è giornata.
Ascolta il ticchettio delle scarpe che proviene dall'affollatissimo piano di sopra e aspetta che suoni il telefono. Intanto il tempo passa, la flebile luce che entra nel suo studio diminuisce, insieme alla voglia di fare qualsiasi cosa.E' l'unico fotografo al mondo a non avere un telefono cellulare.
Passa un suo amico, è Andrea, sempre elegantissimo, sono due giorni che il nostro eroe gli ha fatto un nuovo biglietto da visita come consulente di commercio internazionale e già si immagina i containers, con il suo nome stampato sopra, viaggiare nei porti di mezzo mondo.
In verità, appena un paio di mesi fa, gli aveva fatto un biglietto da visita come consulente d'azienda per l'informatica e anche in quel caso, dopo poco, Andrea si sentiva un concorrente di Bill Gates.
Poi un avvocato di 78 anni gli ha assicurato che il futuro è solo import ed export ...
Tra due mesi il nostro eroe sa che sarà costretto a fargli un biglietto da esperto di problematiche per l'allevamento degli struzzi, perché qualche vecchio rincoglionito, amico del padre, gli dirà che nel terzo millennio mangeremo molta carne di struzzo.
Oggi, il nostro eroe e' talmente acido, da mettere in fuga anche l'esperto di commercio internazionale.
Squilla il telefono, e' la madre ...
La giornata troppo lentamente muore, svuota il posacenere e aspetta il suono di quel cazzo di apparecchio.
Quante giornate ha trascorso così nella sua esistenza.
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Notte, il Napoli ha appena pareggiato con il Pescara, complicando ulteriormente una classifica già complicata.
Il nostro eroe, sudato dalla tensione, accenna qualche gesto rabbioso nei confronti della radiolina del figlio, si consola aprendo una birra e con il dolce pensiero che in serie B va bene anche un pareggio.
Il figlio dorme e la moglie sta leggendo.
Un poco di sano zapping, una sigaretta e i preparativi, più lenti del solito, per andare a letto.
L'inevitabile vernissage pomeridiano ha lasciato segni di profondo disgusto nel nostro eroe, ma il rapporto di "semiamicizia" con Gianfranco, il fotografo autore dell'esposizione, ha reso la sua presenza obbligatoria.
Gianfranco ha cinquant'anni, una straordinaria capigliatura d'argento e un look molto da fotoreporter. Molto tempo fa era un nome noto, poi un declino violento e apparentemente immotivato lo ha spinto sempre più ai margini del bel mondo.
Oggi lavoricchia saltuariamente per qualche giornale, amministra gli interessi di famiglia e cura i suoi capelli.
Il nostro eroe dopo aver invano tentato di farsi accompagnare dal suo amico Pippo, con la penosa balla di presentargli un'inesistente amica superbona, è andato solo all'inaugurazione.
Il pubblico era composto da vecchie zitelle, le uniche che a quell'ora non hanno un cazzo da fare, ex sessantottini, obbligati da comuni antiche militanze e qualche fotografo; non c'è un negro, una modella e neanche un calabrese.
Come al solito il nostro eroe si sente in grande imbarazzo, per fortuna incontra il suo maestro Giorgio.
Giorgio: sono un poco incazzato con te
Eroe: perché?
Giorgio: te lo dico la prossima volta (sorride a chiunque), adesso non e' il caso di bisticciare, non ti sei fatto sentire, eravamo più in contatto quando stavi a Milano. Cosa fai?
Eroe: il solito...
Giorgio: (sempre sorridendo a chiunque) Vado in Messico per una mia mostra ... (alza la voce) una mostra su Napoli.
Eroe: debbo andare assolutamente a casa. Ciao.
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La borghesia napoletana è il vero cancro della città.
Ore 13, il nostro eroe sta mangiando un po' di caciocavallo, squilla il telefono, non è mai indeciso sul rispondere, deglutisce senza masticare e alza la cornetta.
E' Chicca, nevrotica come sempre, che vuole sapere se Maria affitterà la sua casa per il periodo di Pasqua. Il nostro eroe non resiste alla tentazione e fa un paragone fra le due.
Entrambe molto ricche e di famiglia bene in vista, non fanno sbavare gli uomini al loro passaggio e usano la scrittura per mestiere.
Maria e' milanese, Chicca napoletana, ma le caratteristiche comuni rendono il confronto avvincente.
Maria è umile, sempre in bilico e in contrasto con se stessa e con gli altri, eppure, con il nome che porta e con due libri abbastanza riusciti alle spalle, potrebbe avere un'immagine più sicura di se.
Chicca e' presuntuosa, follemente spaventata da qualsiasi confronto, non ha libri alle spalle ed è molto sicura di se.
Maria propone continuamente lavori ai giornali, spesso senza successo, Chicca ha tentato di lavorare con il nostro eroe, ma non ha mai impugnato una cornetta per proporsi e dopo poco si è stufata.
Senza accorgersene il nostro eroe sta scivolando verso una pericolosa apologia della borghesia lombarda, pensa alla cordialità' ruvida e dolce della mamma di Maria e alla spocchia di quella di Chicca, alla profonda integrazione con Maria e alla difficoltà di Chicca ad aprirsi, confrontarsi, non solo con il nostro eroe, ma con tutte le realtà che tentava maldestramente di raccontare.
La borghesia napoletana non ha nuovi adepti dall'unità d'Italia, i borghesi nascono e, dopo essersi sposati e cornificati tra loro, muoiono nello stesso fottuto chilometro quadrato.
Il nostro eroe ha una visione: è l'alba, assonnato gira tra i pescatori di Mergellina con una macchina fotografica al collo.
Cerca un viso che possa rappresentare, almeno per una frigida photo editor milanese, la napoletaneità, quella profonda e intensa capacità di adattarsi.
Si avvicina e sale, senza chiedere il permesso, su una barca dove c'è un pescatore senza età. Lo fotografa soddisfatto, è fatta, salutandolo si accorge che è un marocchino.
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Il nostro eroe e' al porto di Castellammare, sospeso a 10 metri da terra su un'impalcatura di due metri quadrati, fissata ad una gru per containers.
Il gruista è mezzo sbronzo, ha bevuto come un porco alla festa per il varo della Cinzia P. e si diverte a far dondolare il fotografo e il suo accompagnatore, un operaio del cantiere.
Sa che il nostro eroe è un cacasotto e si vendica delle migliaia di foto promesse e mai ottenute. Il fotografo lo insulta e gli fa le corna, da lontano.
Cinzia P. oltre ad essere una nave è la sorella dell'armatore, ha il volto quadrato e un cappello mostruoso, dove è appeso di tutto.
L'armatore e' sudato, lancia ovunque bottiglie di Ferrari, tutto è terribilmente triste e privo di gusto: il prete, mezzo uomo e mezza donna, la banda paesana, le pizzette fredde.
In pratica il nostro eroe deve fotografare la Cinzia P. sullo sfondo del paese, dopo aver già fotografato una decina di lanci di bottiglie, Cinzia P, quella umana, la famiglia P. al completo in tutte le salse e l'alza bandiera.
Sono le 14,30 e il nostro eroe ha fame, il suo accompagnatore ha l'unica faccia bella di tutta la compagnia, dimesso, non ha i lineamenti sconvolti dal Ferrari come il gruista.
Operaio: lo vedi il cantiere vuoto? E' la prima volta in tanti anni.Si chiude.
Eroe: anche i P. costruiranno le navi in oriente. Tu che farai?
Operaio: che cazzo ne so, vorrei andare per mare, ma oramai ci vanno solo i filippini, li vedi a poppa sulla Cinzia P? Solo l'ufficiale, il vice e il cuoco sono italiani. Questa nave è l'ultima, non ce ne saranno altre per anni.
Il mercantile e' partito, i due tornano a terra, il nostro eroe attraversa mestamente il cantiere e va a prendere la circumvesuviana. Lo scenario è spettrale, qualche cagna rognosa si aggira tra le "rovine" di ruggine e sale, solo le Mercedes dei P. sembrano felici.
Aspettando il treno riconosce un invitato della festa, è il papa del cuoco della nave, gira come un disperato nella feroce e sgangherata sala d'aspetto.
Eroe: c'è un telefono, un bar, la biglietteria? Quando parte il treno?
Papà cuoco: no, non c'è niente, il treno parte fra un'ora (continua come fra se, ma a voce alta) mio figlio tornerà a casa tra sei mesi, lascia una moglie sola e una figlia appena nata.
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Leone, quando aveva quindici anni voleva fare il musicista, amava il metal, le borchie e portava i capelli lunghi e sporchi. Verso i venti, dopo un'infruttuosa e schizofrenica doppia vita (il giorno assicuratore nell'ufficio del padre, la notte punk), ha scelto una strada diversa.
E' andato in un centro sociale occupato ed ha incominciato a vivere alla giornata, lavorando saltuariamente come tecnico del suono nei concerti o suonando ai bordi delle vie affollate.
Non vede il nostro eroe da circa dieci anni, un "diverso-simile" nomadismo li ha tenuti lontani, anche se in ogni caso lo sarebbero stati.
L'incontro è bello, siamo in Via Cavallerizza, dove il nostro eroe, di ritorno dalla banca, sta parlando con un certo Carlo, compagno di classe al liceo, attualmente mantenuto dalla donna, a sua volta mantenuta dall'ex marito ricchissimo.
I due sorridono e pensano contemporaneamente le cose più terribili l'uno dell'altro, si congedano da Carlo e fanno alcuni passi per mettersi in disparte, lo sguardo è ironico, il dialogo cupo.
Eroe: cosa stai facendo.
Leone: cazzeggio, poco lavoro, forse parto per l'Australia.
Eroe: bello, sai che ci ho pensato seriamente tempo fa, prima di decidere di tornare a Napoli. Aria nuova, fresca, io senza famiglia ci andrei subito.
Leone: ci penso da quest'estate, ho un amico lì, dopo tanti anni però è dura partire, cominciare da zero.
Eroe: suoni ancora?
Leone: poco, progressivamente mi sono occupato sempre più di suono, un mestiere vero, pensavo... Tu fotografi?
Eroe: si, come un pazzo.
I due si salutano, promettendosi un vago caffè, la strada è stretta e affollata, il nostro eroe osserva con dolcezza la sagoma del suo amico d'infanzia aprirsi un varco tra la folla e sparirci.
Ricorda senza malignità le varie fasi di Leone, quella dei sei orecchini, quella dei capelli corti tardo esistenzialista, quella aspra del punkabestia, ma non riesce a identificare l'odierna. C'erano tra i suoi vestiti le contaminazioni delle epoche precedenti, ma era tutto così sfumato che quasi non notava differenze con il proprio look post albanese.
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Le cassette delle lettere sono rotte e senza nome, i postini dividono la posta in due di questi ignobili contenitori di truciolato gonfio e sbiadito, italiani da una parte, stranieri dall'altra.
Il citofono funziona ma nessuno lo usa, così il quieto silenzio del vicolo è spesso sventrato da urla straziate. Anna e Tonino i più gettonati.
Ogni condomino ha solo la propria chiave di casa, il portone è aperto giorno e notte, anche per consentire i continui traffici di uomini e merci. Nell'androne, quattro bassi rumorosi e fetenti, decine di motorini, panni stesi e carrozzine per bambini.
Uno dei motorini è del nostro eroe.
Salendo gli scalini belli e malmessi, si risale la scala sociale: al secondo piano, porte blindate e cotto per terra, è appeso, un'incomprensibile fotografia del duomo di Milano.
Al quarto piano abita il nostro eroe, tra una scozzese che insegna all'università, due froci di mezza età e la moglie del pescatore del vicolo, sette figli maschi e una femmina.
Tutti conoscono il nostro eroe, anche se ci vive solo da poco, quando qualcuno lo va a visitare, trova sempre chi gli indica la casa: quello che ha la bella moglie con la pancia.
Il vicolo è lindo e profumato, a dispetto dei luoghi comuni, quasi tutti portano la spazzatura ai contenitori vicino la Piazza del Plebiscito.
La piazza maestosa, nasconde alla sinistra, guardando da palazzo reale, la vera anima sporca della città.
Quattro o cinque cassonetti mezzi incendiati, dove la mattina presto, branchi di zoccole affamate gironzolano tra carcasse di motorini rubati, mobili scassati, scarti di materiale edile e siringhe.
Al Pallonetto è nata Pina, silenziosa "aiutante domestica" del nostro eroe, ha un'età compresa tra i quaranta e i sessanta, magra e senza marito vive coi fratelli in una casa buia e senza telefono.
Pina per cinquantamila lire il mese in più, va tutti i giorni a prendere il figlio del nostro eroe a scuola e ogni giorno spende circa mille e cinquecento lire per portare una sorpresa al piccolo.
Osservandoli da dietro, percorrere svelti la strada del ritorno, si vedono le loro figure tenersi per mano e parlottare di cose misteriose.
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Quattro secoli su un grottesco divano color salmone: un bambino di quattro anni, sua madre, la madre della madre e la madre della madre della madre.
Sprofondato nella poltrona accanto, il nostro eroe riposa dalle fatiche del pranzo. Una voce urlante e fastidiosa proviene dalla televisione accesa e non vista.
Il dialogo tra le donne, incomprensibile, allontana sempre di più il nostro eroe, che ormai dorme o finge di farlo.
Interno di un'elegante casa di paese in un giorno di festa.
Il vestito nero, il rosario in tasca e una fede incrollabile in Dio e Berlusconi, accende negli occhi della bisnonna una strana mitezza: quella degli anni, della terra, del tramonto.
La stessa donna, escluso Berlusconi, avrebbe potuto vivere anche quattrocento anni fa', la stessa vita, le stesse fatiche.
Più in là, fasciata in un vestitino viola scuro, la nonna, sessanta anni, una pubertà provinciale, pre sessantottina e post boom economico, di cui conserva in sintesi tutte le tracce nefaste.
Semi sdraiata sull'enorme divano la madre, trentadue anni, un'adolescenza "pienoriflussomologante", viaggi e avventure inimmaginabili, sia per la madre sia per la nonna.
La vecchia in nero racconta con voce cantilenante degli aneddoti della sua vita, sono favole cupe per il bambino, lui non può immaginare la vita dura del mare, in un mondo senza luce e televisione, ascolta svogliatamente e vaga con lo sguardo tra le facce dei presenti.
Il nostro eroe osserva la scena con distacco, come se fosse un'inquadratura di un film non coinvolgente.
Riflette sugli aeroplani, sulla stessa televisione accesa inutilmente in quel salotto, sul miracolo assurdo di questo scorcio di millennio che accomuna con violenti legami di sangue esistenze incomunicabili e lontane. La nostra storia dislessica, fatta da generazioni che non si seguono più in linea retta, ha catapultato lui, mezzo addormentato, al centro delle contraddizioni di questo folle progresso.
Una moglie che potrebbe provenire da New York e una suocera che sembra uscita da un ruolo secondario di un vecchio film di Oldoini.
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I futurgay sono il "quinto" sesso per il nuovo millennio: giovani, spesso eterosessuali, d'età compresa tra i venticinque e i trentacinque anni.
Non hanno una specifica classe sociale d'appartenenza e neanche un comune livello culturale, dividono quella che un tempo era una relazione unica forte, la classica uomo - donna o uomo - uomo o donna - donna, in tre moncherini: mamma, amico e troia di turno.
Pippo e Andrea sono futurgay, nessuno si sognerebbe di invitare l'uno e non l'altro, vivono in simbiosi, sentendosi quattro-cinque volte il giorno e vededosi tutte le sere, tranne quelle in cui bisogna per forza scopare.
La scena avviene nel salotto del nostro eroe, la classica cenetta a quattro in cui, immancabilmente, si finisce a parlare con malignità del proprio partner.
La moglie del nostro eroe ha appena finito un'ironica digressione sulla capigliatura del marito, quando Pippo inizia ad attaccare Patrizia, l'ultima "conquista" di Andrea.
L'eroe e la moglie allibiti e divertiti assistono al seguente dialogo.
Pippo: sapete come l'ho conosciuta? Piazza Arenella, un appuntamento al buio organizzato da un mio ex compagno di scuola, che gestisce un'agenzia di accompagnatrici. Me la sono fatta qualche volta prima di passartela e ad un giro gli ho dato anche duecento carte.
Andrea: io con lei gioco, so che mi punta per qualcosa di più di una scopata, mi stimola, le dò corda ma non ci casco.
Pippo: ma se mi hai detto che è una persona stupenda, poi ci stai due ore al telefono, vi siete aperti pericolosamente, conosci la sua vita, la sua famiglia, i suoi problemi universitari. Appena puoi, scappi arrapato in quel cesso di Secondigliano per incontrarla. Io ti voglio solo avvisare.
Andrea: sei geloso di me o di lei?
Pippo: è bella, la sua vita diversa gli dà, oltre ad un'ottima capacità a letto anche un indubbio fascino, rispetto alle squinze che ti fai, però...
Andrea: se mi piace... poi ho innescato un processo di redenzione.
Pippo: adesso studia, (ride) non esce e sta anche rinunciando ai "lavori".
Andrea: gli preparo il cuscus domani, il prosecco e... Romantico no?
Pippo: è inutile, sei cotto, ma non dimenticare che è una botta sicura.
Andrea: mica l'avete presa per una puttana?
Ridono tutti e quattro, ognuno per un motivo diverso, ma la cosa più strana è nella domanda di Andrea: non è una battuta.
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Roma, stazione Termini, il nostro eroe è in trasferta professionale: deve incontrare la potente figlia di un potentissimo signore per svoltare qualche giornata di fatica.
L'incontro avverrà nello studio della signora, verso le dodici e trenta, così il nostro eroe ha il tempo di bere un caffè con Giulio.
Ha conosciuto Giulio in vacanza solo da pochi mesi e paradossalmente, dopo aver vissuto per circa sei anni a Roma, è l'unico abitante di questa città che abbia voglia di vedere.
Sono le 10,30, la stazione è affollatissima di gente sconosciuta, volti stanchi, scuri e loschi si aggirano attorno all'eroe, Giulio è naturalmente in ritardo. Il nostro eroe, un po' inquieto, si fuma una sigaretta, prende un caffè e si fuma un'altra sigaretta.
Sono quasi le 11 quando avviene l'incontro.
Giulio ha trentotto anni, milanese, disoccupato snob di lungo corso, ha seguito la sua donna, un'attrice di teatro, in quella strana immigrazione al contrario della gente di spettacolo, dal nord al sud.
Il loro rapporto, tra corna e tormenti, va avanti da dieci anni, ultimamente però è entrato in un inedito tunnel di incomprensioni.
I due si avviano in motorino verso i Parioli, cercano a fatica un bar decente e si siedono ad un tavolino libero. Il dialogo verte sulle reciproche difficoltà esistenziali e professionali.
Alle 12,22, assecondando il suo stile, il nostro eroe entra insicuro e spedito negli uffici della signora, il colloquio è cordiale ma vago.
Non c'è invito a pranzo e verso le tredici e dieci il nostro eroe è sulla via per la stazione, s'incammina lentamente verso il treno del proprio ritorno.
Attraversa sconsolato tutti i punti nevralgici della sua vita romana, dei suoi lontani vent'anni, senza malinconia, senza vergogna e senza rimpianti.
Il laboratorio, la sua prima agenzia, il giornale con cui ha lavorato parecchio, il bar dove, da buon romano, mangiava le pizzette con prosciutto e fichi.
Si sente un anomalo apolide, ha molta fame ma non mangia, solo arrivato a Termini si sente meglio, entra da Mc Donald e si spara felice un Mc Rib. Sorride, mescolato e spavaldo all'insoddisfatto viavai, come se la stazione fosse già un "luogo altro", un po' più casa sua.
***
L'asfalto, illuminato da un pallido sole, sembra un tessuto logoro e inquietante, guardarlo, mentre il muso dell'automobile se lo mangia in dissolvenza, porta l'osservatore lontano, verso un sogno pieno di incubi. Ore 13,30 di una giornata uggiosa e monotona di qualche tempo fa'.
Il nostro eroe è solo nel suo studio, aspetta la moglie, quando squilla il telefono. Un suono sinistro e folle annuncia che Francesco è morto, schiacciato da un TIR.
Francesco lascia una vita come tante e una mostruosa e paralizzante sensazione di precarietà, dell'esserci o non esserci per puro caso.
L'auto distrutta, con le sue lamiere incandescenti e contorte, restituisce brandelli di vita: un'agendina, un pallone miracolosamente integro, un telefonino, un portachiavi di metallo senza più i suoi colori con le chiavi impaurite e attaccate tra loro, il suo corpo sventrato.
Francesco è un amico d'infanzia di sua moglie, una frequentazione che dura dai tempi delle scuole medie e che coinvolge anche il nostro eroe da alcuni anni.
Si riprende e aspetta la moglie, non può dirglielo, è incinta di pochi mesi.
Eroe: sai Francesco ha fatto un incidente, è in ospedale, nulla di grave.
Poi porta stranamente la moglie in un'osteria. Al rientro, mentre lei va in bagno, si telefona (ha due linee) e finge un dialogo concitato e veloce.
Eroe: sai amore, ci sono complicazioni, devono operarlo.
Moglie: posso chiamare...
Eroe: no, chiamano loro.
A questo punto spinge la moglie depressa verso il divano, costringendola ad un misterioso e inusuale riposino. Verso le 15.30 la sveglia. Ha osservato la moglie tutto il tempo, sorvegliava il suo accenno di pancia con la testa paurosamente vuota.
Eroe: ho chiamato io, dobbiamo solo pregare, si può telefonare solo verso le 17.
Le lancette dell'orologio del nostro eroe continuano svogliatamente a girare, il pupone inizia a masticare la parola morte nella sua bocca, per trovare il modo di pronunciarla. Alle 16,30, finalmente, sconvolto, parla.
Eroe: sai, potrebbe anche non farcela, non è detto, ma proviamo ad immaginarlo.
***
Roberto e Antonietta sono fratelli, nati da un operaio dell'ITALSIDER e una cassiera di salumeria, sono coetanei e amici del nostro eroe.
Oramai sono anni che si schivano, Antonietta non fa un discorso che non riguardi Hobbes e Roberto parla solo in latino.
Entrambi sono gay, Roberto per qualche strana coincidenza genetica anche a dieci anni era donna, Antonietta per emulazione e scelta culturale.
Lavorano all'università Orientale di Napoli, quella dei "diversi", degli albatri di periferia, li s'incontra la mattina presto alla fermata dell'autobus, due scolari invecchiati e vestiti spaventosamente allo stesso modo.
Il nostro eroe, dei tre, è sempre stato intellettualmente il più dotato, ma troppe cose nella sua vita lo hanno spinto nell'imbuto degli "inespressi".
Antonietta è stata l'unica reale "fidanzatina" del nostro eroe, il loro raccapricciante rapporto è durato, tra alti e bassi, dai dieci ai venti anni.
Età in cui Antonietta, forse pensando che tutti gli uomini fossero come il nostro eroe, decise di passare alle donne.
La morbosità, il tasso d'acidità e una sostanziale schizofrenia sociale, lo rendevano terribilmente incompatibile a tutte le ragazze, che dopo un interesse iniziale scappavano.
Antonietta, invece, è riuscita a sopportarlo per anni, una al massimo due settimane il mese.
Una volta il nostro eroe, aveva circa diciotto anni, vide una coppia di vecchi troppo malconci camminare aggrappati comicamente l'uno all'altro, s'immedesimò talmente che pensò di sposare Antonietta, la quale fu talmente disgustata e ferita dal paragone, da scomparire per alcuni mesi. Il perché si sentisse tanto vecchio e malconcio non riuscì mai a farglielo capire, comunicava epidermicamente la sua difficoltà a crescere, portandola su un autobus, da un capolinea all'altro, il suo passatempo preferito, allora.
Dai venti ai ventisei anni, si sono visti saltuariamente e da amici, il nostro eroe viveva a Roma e sembrava, forse solo in apparenza, molto migliorato. S'incontravano come vecchi cugini, senza tremori e patos, fino al matrimonio del Pupone, da allora stranamente si tengono lontani, o meglio, Antonietta lo evita come una cattiva coscienza.
***
Monica è una vecchia insegnante zitella che vive con i suoi gatti, ha solo trentasei anni, ma e' sempre stata cosi.
Il suo sprazzo di vitalità lo ha avuto dai tredici ai sedici anni, un lungo e tortuoso tunnel di alcol, sesso e droga di tale violenza che molti pensavano ne sarebbe rimasta uccisa.
Invece si rimise in sesto e da allora, sono quasi venti anni, vive segregata in casa, accudita da vecchie canzoni impegnate degli anni settanta che finge con tutti e con se stessa di aver vissuto. Una fasulla prospettiva d'altezza che falsifica tutte le sue autoanalisi e molti suoi discorsi.
In realtà non ha vissuto un bel cazzo di niente, il nostro eroe conosce nei minimi particolari la sua tormentata adolescenza, vissuta in qualche cesso lurido a farsi le pere, o a farsi sbattere per farsi le pere.
E' andato di persona, per puro caso, a tirarla fuori da quel casino, non per eroismo né per amore, ma per morbosa curiosità.
Monica ha visto in lui, più giovane, con la sua "caustica atossicità" e il suo sguardo ferito, un ottimo appiglio cui aggrapparsi e un buon compagno di studi per lei super ripetente.
Grassotella, con un'intelligenza limpida e infelice, Monica è stata il vero specchio del nostro eroe, almeno fino a qualche anno fa, quando il nostro eroe per paura e noia si è eclissato.
Non ha mai conosciuto la moglie, il figlio, i loro incontri sono sempre più rari, ma ogni volta che si vedono, annullano in un istante anni di lontananza e forse per questo non si frequentano più.
Alcuni mesi fa' però hanno vinto la diffidenza e sono andati a bere una birra insieme. La serata è stata crudele, Monica si è ingoiata una decina di Ceres e il nostro eroe, sobrio, osservava lentamente il volto della sua amica decomporsi, come quello di un cadavere.
Gli anni hanno aggiunto al suo sguardo profondo qualcosa di umiliante, il nostro pupone non regge al confronto, anche perché è un parallelo con se stesso, con quella parte di se "fintoalta" andata fottutamente smarrita.
Appena può, la porta a casa, vaga con il motorino tra i bar, non ha sonno e nessuno da rintracciare. Pensa a Monica, a se stesso, alla moglie al mare... la notte scappa via con tanta tristezza e nessuna pietà.
***
Antonio soffre di allucinazioni, in pratica saltuariamente si sente spiato dai servizi segreti, cerca disperatamente i microfoni nel suo armadio o dietro al termosifone. Qualche volta avverte una minaccia di morte imminente incombere e diventa imprevedibile, getta via il cibo perché avvelenato o inveisce violentemente contro il fratello marziano.
Spesso è semplicemente depresso e trascorre la giornata incollato alla tv.
Nessuno sa bene l'origine di questa cosa, non ha esperienze tali da giustificarla e non ha mai fatto uso di stupefacenti, tutti a casa sua ricordano però il crescendo di stranezza degli ultimi tempi, culminato una cupa sera d'inverno, in uno spettrale lancio di cibo e indumenti dalla finestra della cucina.
Quando era bambino Antonio era il compagno di giochi del nostro eroe, i loro passatempi avevano qualcosa di sadico, torturavano gatti d'inverno e granchi d'estate o architettavano piani sofisticati per rubare e fare dispetti. Isolati e temuti, erano visti come due pesti dagli altri genitori che si mettevano fisicamente in mezzo per difendere i loro pargoli.
Pieni di cicatrici, con i capelli arruffati, terminavano esausti le loro giornate come dei guerrieri malconci ma fieri.
Durante l'adolescenza i loro rapporti si sono raffreddati, fino a diventare inesistenti, paradossalmente perché Antonio trovava troppo bizzarro il nostro eroe e anche la sua famiglia puntava ad amicizie più rassicuranti.
Un giorno ha deciso di trascurare la sua follia, si è pettinato e vestito a puntino ed è andato incontro ad un destino che non poteva essere il suo.
Una recita durata quindici anni, in cui Antonio si è laureato, ha sposato una collega ed ha creato delle amicizie e un guardaroba in linea con le vocazioni materne.
Poi il botto, il buio, che spegne improvvisamente la nostra immagine allo specchio, che in un solo attimo, allucinato e straziante, ha annientato l'attore e il suo personaggio.
I due amici si sono incontrati qualche giorno fa a piazza del Gesù, entrambi vestiti bene e invecchiati, entrambi con un bambino sorridente sulle spalle.
La malinconia è un sentimento osceno quanto l'amore.
***
Gaetano è nato ai Quartieri Spagnoli da una modesta famiglia di artigiani: "saponari" da secoli che avevano una strana voglia di evolversi, di risalire, e in fretta, dai fetenti bassi dei quartieri alla verde collina di Posillipo.
Così, il povero Gaetano, dopo essersi arrampicato sù per la scala di Santa Teresella, doveva prendere due autobus per arrivare al liceo posillipino del nostro eroe: stessa classe e spesso stesso banco.
Cinque anni di liceo, poi colleghi d'università e in mezzo tante storie di indigeribile adolescenza.
Credo che il nostro ragazzo-uomo, lavorando e vivendo a Roma, si sia laureato grazie all'amico, che invece aveva fatto dell'università una casa.
Gaetano aveva un feroce cinismo già a quindici anni, la sua frase di battaglia era: tanto a trent'anni dobbiamo morire.
Davanti alle varie difficoltà delle loro esistenze, questo slogan di "dolce tormento" rappresentava un'ancora di salvezza, una vaga e lontanissima prospettiva di fuga.
Poi, il tempo si è messo a correre, i due senza motivo si sono persi di vista, guadando separati, ma vivi, il flusso dei trent'anni, certo non nel modo che immaginavano allora.
Oggi Gaetano lavora nel laboratorio di famiglia, ripara e vende, senza voglia, gli stessi oggetti che tanto aveva schifato.
Lo s'incontra in qualche bar, vicino Piazza Cavour, con un elegante cappotto nero e mentre sorseggia un misterioso veleno alcolico, sistema i suoi affari.
Sempre magro e pallido, ha trasformato il suo cinismo in atarassia, il suo pessimismo in fatalismo. Ha provato senza convinzione i calvari dell'emigrazione, quello dei "concorsari", poi un giorno il padre è morto e lui, scegliendo di non scegliere, ha occupato il suo posto in bottega.
Il nostro eroe lo osserva, protetto dal buio, dalla parte opposta della strada, non sa se farsi riconoscere, è come paralizzato.
Guarda quell'uomo sconosciuto e tenta di trovare nel suo sguardo qualcosa di familiare, niente, è la reincarnazione del padre, è come lui, nato e morto incolpevolmente "saponaro".
I minuti passano e il nostro eroe indeciso riflette, ricorda la dolcezza del papà del suo amico, gli occhi furbi e fieri, le mani nodose e sporche, certo ha avuto una vita durissima, ma è stato felice.
Si accende una sigaretta, dà un'ultima occhiata e riprende il suo cammino.
***
Bobo è un ragazzo bellissimo, forse è stata questa la sua fregatura.
Trent'anni, lo sguardo spento da cane "mazziato", non ha un solo giorno di lavoro vero alle spalle.
Ha trascorso la sua persa adolescenza tra droghe e soldi, che riceveva chissà come e da chi; era seducente, molto inserito e il nostro eroe lo sfruttava apertamente, per rimediare qualche party o un po' di fica.
A ventisei anni una ricca e viziosa donna di mezza età ha preteso e ottenuto l'esclusiva dei suoi servigi.
Bobo si è trasferito a casa sua, dove lei lo ha mantenuto in un lusso sfrenato, allontanandolo volutamente e con cinismo da una già distante parvenza di normalità.
Passati i tremori, la troia ha messo gli occhi su un bel ragazzino più giovane e fresco di lui, così tre mesi fa Bobo ha perso vitto, alloggio e parcella.
Lontani i tempi in cui aveva una festa sempre pronta, una viziosa per un amico "arrapato", adesso non ha nessuna popolarità e soprattutto non è irresistibile come una volta.
La droga e la vacuità della sua esistenza gli hanno annullato il fascino, mortificato il corpo e tragicamente azzerato le sue quotazioni sociali.
Rimedia un po' di soldi con qualche frocio, ma in fondo è sputtanato anche con loro. Solo la madre, seppur con molte riserve, non gli ha voltato le spalle.
I suoi due fratelli sono felicemente laureati, fiscalisti provetti, fidanzati con figlie di ricchi commercianti, non hanno più voglia di aiutarlo né di vederlo tra i piedi.
Bobo ha la terza media, non ha l'età e neanche la voglia di imparare un lavoro ed è abituato troppo bene, per ricominciare da zero.
Il nostro eroe tenta di analizzare la situazione, trovare un modo per aiutare o almeno dare un consiglio al suo amico.
Forse potrebbe chiamare Mario, titolare di un'impresa di costruzioni, ma per cosa, non lo immagina operaio. In un negozio, bah con le sue credenziali. Il fotografo, ormai con le nuove macchine fotografiche ci vuole una settimana ad imparare, ma è troppo difficile poi iniziare a guadagnare. Può, un soggetto così, tornare a scuola?
Il nostro pupone trascorre circa un'ora a pensare all'amico, poi si alza di scatto e se ne va a casa.
***
Giuliano aveva un piccolo buco tra gli incisivi, attraverso quel foro con una misteriosa abilità riusciva a sputare addosso a chiunque senza essere scoperto. Uno dei momenti più belli nella vita del nostro eroe fu quando Giuliano, interrogato in inglese, sputò sulla testa rapata dell'insegnante, un pretaccio ignorante e arteriosclerotico che ignaro domandò se per caso in classe piovesse.
Alla fine di quell'anno, il secondo liceo, Giuliano fu bocciato, come del resto i successivi, costringendo il padre, pasticciere al Rione Traiano, a rivedere le ambizioni che aveva riposto sul figlio.
Cosi Giuliano si ritirò dalla scuola e andò a lavorare nella pasticceria paterna dove il nostro golosissimo pupone era di casa.
Come spesso è accaduto nella vita del nostro eroe, con il tempo le visite diventarono meno frequenti, dai diciassette ai trentadue anni non si sono mai visti.
L'incontro è casuale, Via Carlo Poerio ore 14,30, il nostro eroe è alla disperata ricerca di un adolescente che porti per strada un vassoio con molte tazzine di caffè, deve soddisfare la solita viziosa photoeditor lombarda e in tempo utile per la spedizione, entra in un bar qualsiasi e ritrova l'amico di un tempo.
Stessa faccia anarchica, solo più gonfia e invecchiata, i capelli leggermente più ramati, il buco " meraviglioso" tra i denti...
Spiega il suo problema all'amico e subito lo risolve.
I due amici si appartano e parlano:
Giuliano: questo è il mio bar
Eroe: sei sposato? Io si e ho un figlio e un altro in arrivo
Giuliano: io ne ho due e una moglie "generale"
Eroe: che cazzo hai fatto?
Giuliano: fino a venticinque anni ho lavorato con papà, poi sono riuscito ad aprire quest'altro bar, tutto mio... e tu?
Eroe: (riflette molto prima di rispondere) ho cazzeggiato...vedi sempre quell'anima persa di Giuseppe?
Giuliano: (molto turbato) non sai... non sai nulla...mi dispiace... è morto tre anni fa di overdose ...eravate tanto amici...pensavo ... pensavo che l'avessi saputo... mi dispiace dirtelo così...
L'eroe saluta e corre alla posta, ricorda la faccia indisponente di Giuseppe, la sua casa, i pasticcini del papà di Giuliano sul tavolo e tre furfanti a organizzare di tutto fuorché un pomeriggio di studio.
***
Metropolitana gialla di Milano, ore 22, il treno è mezzo vuoto, un paio di zoccole albanesi, militari arrapati e due uomini curvi che si guardano con curiosità, uno ha circa settanta anni, l'altro è il nostro eroe.
Il vecchio si avvicina al ragazzo-uomo.
Vecchio: ti ho riconosciuto sai, sei un fotografo.
Eroe: come hai fatto... (sa che un fotografo si riconosce da un km)
Vecchio: anche io ero fotografo, nel dopoguerra Milano era incasinata e bella, poi sono entrato nelle grazie di quelle troie del gruppo dei Navigli, ne avrai sentito parlare, verso la fine degli anni sessanta ho avuto anche un po' di gloria...chissà perché ho perso la bussola... non ho fatto più un cazzo... alcol, donne, droga... quelle troie ancora a dettare legge e io scomparso dal mondo...
Eroe: sembra un sogno, io vengo dalla casa di una di quelle troie ... fine anni 50... no, forse le sue "battaglie" sono del sessanta ... ma la conosci...B.P... voleva farsi dei ritratti molto "nature", sai, non so il motivo ma le vecchie mi vengono sempre bene.
Vecchio: non ti fare infinocchiare... sanno sempre quello che vogliono... cortesi e alla mano... poi dimenticano tutto e tutti...
Eroe: io non me le devo mica scopare, il mio rapporto parte in modo completamente diverso da quello che avrai avuto tu...io non "condivido". Oggi il mestiere è diverso, una botta e via.
Vecchio: una mattina, qualche anno fa...ero talmente cotto ma lucido... ho comprato una tanica di benzina e ho bruciato il mio archivio... fanculo...
... ero troppo ingenuo... avevo vissuto un sogno che poi era diventato un incubo...non riuscivo a perdonarmi di essere stato tanto fesso...
Eroe: chiediamo sempre troppo a noi stessi, ci giudichiamo con parametri troppo severi...le minchiate vanno sempre perdonate...
Vecchio: facile per te che sei napoletano, noi ci prendiamo sempre troppo sul serio...poi sei nato in un mondo...già senza luce...
Eroe: debbo scendere... ciao
Chissà se è vera questa storia?
***
Emme non sa un cazzo di niente. È arrivata a Milano sull'uccello di un suo amante, un noto fotografo romano e con quest'unica referenza è entrata nell'agenzia del nostro eroe. Inutile dire che dopo una settimana era gerarchicamente sopra il pupone.
Usando la sua "ciucina" come esca, ha attirato a se molti uomini e passando da uno all'altro è arrivata, in pochi mesi, diretta nel letto del gran capo, un impotente quarantenne anonimo e cinico.
Da allora è una persona molto in vista nell'ambiente della fotografia.
Elle ha una strana bellezza, molto di classe. Conosce come fare arrapare gli uomini e si esercita con chiunque incontri, come se volesse democraticamente scoparsi tutti. In realtà si scopa solo un noto personaggio dell'arte napoletana, alla cui ombra si è improvvisata fotografa, grafica, videoperatrice, scrittrice e manager. Tanto si sa, nessuno è perfetto.
Purtroppo però la sua sorprendente fisicità funziona.
A Napoli Elle è trasversalmente (dagli ambienti underground a quelli popolari, dai ricchi possillipini agli intelletualini di Chiaia) bene accetta.
Enne ha un grosso potere ed è abituata ad esercitarlo fin da piccola.
Tutti a Roma conoscono il suo cognome, suona alto e incute rispetto e terrore. Lei, leggiadra e alla mano, è talmente abituata allo "scettro" che lo agita con noncuranza, come il nostro eroe fa con il suo accendino.
Potrebbe fotografare i giardini del papa, viceversa si occupa di fotogiornalismo, disporrebbe dei mezzi per fare del mecenatismo e invece, se procura mezza giornata di fatica al nostro eroe, si trattiene con molta professionalità il 35% del compenso.
Milano, Napoli e Roma, tre donne che non si conoscono tra loro, tre storie diverse con qualche punto in comune: la passerina, l'ambizione, l'umile arroganza del nuovo potere, il nostro eroe che bussa a danari.
***
Nennela non ha età, vive per strada dal 1939 vendendo piccole cose.
Il nostro eroe ha una strana simpatia per questa donna, sin da quando adolescente, passava dalla sua bancarella e si tratteneva qualche minuto per farsi raccontare un aneddoto.
Comprava un caffè all'anziana amica, che in cambio doveva raccontargli una storia, poi stranamente il nostro eroe decise di farsi narrare sempre lo stesso racconto.
Era il 43, un giovane soldato tedesco aveva contratto qualche debito con Nennella, prima di fuggire dalla città, passò dalla commerciante ambulante per saldare il conto.
Nennella non capisce perché il giovane amico vuole sempre ascoltare la stessa storia, ma è troppo civetta per sottrarsi a questo rito.
Forse neanche il nostro eroe sa' il motivo di questa sua preferenza, cerca invano di afferrarne il senso ma, passano gli anni e non ci riesce.
Durante i suoi soggiorni romani e milanesi non ha quasi mai visto l'anziana e anche tornando a Napoli non è passato a salutarla.
Poi un giorno, era da poco morto suo padre, ha sentito l'urgenza di andare a verificare se Nennella era morta. Nennella: corri vamm'accattà nu cafe
Eroe: vecchiaccia sei ancora viva
Nennella: tu si sempe o stesso, tiene a stessa facce e corna...
Eroe: io vado ( compra un caffè nel bar adiacente alla bancarella)
Nennella: ero bella comm'o sole (parte la narrazione, senza nessuna richiesta esplicita), magra pa' a famme, ma teneva na' pelle e luna, tutti passavane pe' ca' attuorno e me volevano, io nun magg' rata a nisciuno...tedeschi, ammericani e capelloni...ma chillu tedesco che te piace e sentere teneva l'uocchi ca parevano du stelle, me parlava cu rispetto, primma e fuj passava tutte e jorne, mannaggia nun l''ggi mai chiu visto. Che ciorta ca ma pavato.
Eroe: dimmelo a lui ti saresti data?
Nennella: Nennella è nu ciore si lo cogli more.
***
"Solo verità, senza minchiate e opportunismi. Ma come si fa? Forse dovrei smettere di fare questo lavoro. Lavare i vetri delle automobili ai semafori è rimasta l'unica professione nobile. L'ultimo rifugio per un essere umano, che oltre a svoltare la "giornata", vorrebbe avere la coscienza tranquilla."
Via Toledo ore 21,30, il nostro eroe infreddolito e scoglionato rientra da un servizio fotografico su una scuola di disegno per handicappati, diretta da un noto artista napoletano.
L'idea è buona, certamente riuscirà a piazzarla su qualche giornale; ma allora perché si sente tanto una merda?
E' nauseato dal narcisismo dell'artista è, soprattutto, dal cinismo con cui entra in universi di dolore "senza sporcarsi i vestiti".
Il fotografo era la coscienza critica della società cui apparteneva, la memoria non scritta di mondi in perenne evoluzione. Come un compagno di vita e di lotta, d'amare e di cui fidarsi, seguiva le stesse strade e a volte gli stessi tremendi destini, di chi fotografava.
Oggi è la cartina di tornasole di un mondo alla deriva, assomiglia più a un brutale detective che a un artista. Manipola ad uso e consumo dei suoi committenti le realtà che fotografa, con l'unico scopo di guadagnarsi la fiducia del vip di turno, un occhio alla pagnotta, l'altro alla notorietà.
La stupida purezza di un tempo ha dato spazio al "sotterfugio" stilistico, perciò non ha nessun'importanza cosa si fotografa, ma il pakagin con cui si rende tutto vendibile.
Si fa una scuola per handicappati e la si reclamizza come un dentifricio, tutti hanno il proprio tornaconto, il giornale, l'artista, i padrini politici dell'iniziativa, il fotografo...
E gli handicappati?
Che belle facce che avevano un tempo i fotografi, anche quelli più rozzi e mercenari avevano lo stupore negli occhi. L'altezza della colta militanza o quella della semplicità. Il nostro eroe non avrà mai la faccia tosta di Ruggero, ottant'anni, di cui settanta in strada a faticare. Il rimpianto per i pranzi a scrocco nel dopoguerra, il cinema gratis, i turni di notte nei giornali. Non avrà mai il viso solcato dalla storia e... "la mia voce scappata lontano come i miei anni".
***
Set di linea d'ombra, nota fiction prodotta dalla Rai di Napoli.
Il nostro eroe dietro la telecamera, aspetta che finisca la ripresa per fare qualche foto, nota un giovane attore che ritocca il già abbondantissimo trucco, si avvicina e scatta.
Poi estrae dalla borsa il suo taccuino e domanda il nome al soggetto appena fotografato.
Eroe: come ti chiami?
Attore: mi chiamo G.P.
L'interessante dialogo sembra finire lì, ma appena la luce rossa che indica "silenzio in sala" si spegne, G.P. inizia a urlare.
Attore: chi lavora su questo set... non conoscono neanche il mio nome ...dio...con chi ho a che fare.
Addetta ufficio stampa: ma è un fotografo di un'agenzia di Milano, non può conoscere tutti i vostri nomi.
Attore: che mancanza di professionalità.
Eroe: cocco mio guarda che io non ho mai visto questo programma e ogni giorno cambio situazione di lavoro...poi non sei mica Marlon Brando.
Attore: sembra un incubo...non credo alle mie orecchie...adesso vado dal capo e ti faccio sbattere fuori...carino...a calci in culo.
Eroe: perché non ti dai una calmata, tra un quarto d'ora me ne vado da solo. Non ti credere che nella mia vita sognavo di stare qua a fotografarti.
Addetta ufficio stampa: ti chiedo scusa, è colpa mia, non gli ho dato i piani di produzione. (poi strattona l'eroe e lo trascina verso la sartoria)
Attore: Katia passami il copione. Ma non finisce qua.
In sartoria il nostro eroe riprende un'attrice di mezza età durante una prova costumi, vuole qualche foto in regalo, il pupone promette svogliatamente come al suo solito, promesse che non mantiene mai.
Un giro al trucco, poi tra i camerini meschini e tetri come spogliatoi di metalmeccanici, saluta con cortesia l'addetta stampa e si avvia verso l'uscita.
Alla reception incontra un giornalista di un giornale locale; piccolo, grasso e sudato solitamente guarda dall'alto in basso il nostro eroe, oggi invece è sdolcinato, vuole sapere qualche novità della fiction, soprattutto di una nuova attrice. Il nostro eroe fa il vago, nicchia e stingendo la mano sudata del suo squallido interlocutore, capisce che la giornata di lavoro è finalmente finita. Attraversa con ardente e immotivata felicità l'orribile spiazzo dello stadio San Paolo e va a prendere la metropolitana.
***
Alessandra è un'attricetta di mezza età e di scarso successo.
Magra, sventrata dalla vita e dall'ozio, vive con figli e colf in una particolarissima casa di posillipo, collezionando amanti tra politici di secondo ordine e cantanti folk.
L'incontro con il nostro eroe è del tutto casuale. Ore 13, il pupone è a casa di Alessandra, ma non lo sa. Sta fotografando il signor Z, quando appare seminuda l'attrice appena svegliata.
Il signor Z: poi fotografa Alessandra, è bellissima.
Alessandra: (senza attendere la risposta del fotografo, sicura del fatto che è certamente onorato da quest'opportunità) mi faccio una doccia e vengo.
Il signor Z esce lasciando il fotografo in "dolce attesa".
" E' adesso che faccio? Chissenefrega di questa... cazzo, chi mi paga?"
Ad un tratto appare Alessandra e il fotografo per incanto smette di interrogarsi. Quella donna non ha niente di particolare, eppure come un enzima, smuove la lenta creatività del pupone e in modo stranamente violento. Una sensazione simile alla "arrapatura", come se per misteriosi motivi, quella donna rappresentasse il suo perverso ideale estetico.
Un gattaccio meraviglioso e malandato.
L'odore acre del sud e della sua agonia sembrano stampati su di lei: negli occhi avviliti, nei modi da troia senza cinismo, sulla pelle, dove ogni anno ha lasciato i suoi rimpianti.
"O sangh' vo ricere, ma nun vo sentere."
Ognuno di noi, forse accetta la parte peggiore di se, quando la incontra negli altri, solo allora la nostra follia diventa poesia, si nobilita e nobilita le varie espressioni.
Ci sono fantasmi persi nella nostra memoria, lugubri e fieri, si nascondono alla vita e alla luce della comprensione, poi uno sguardo ferito, puro e immorale li riporta a galla e ci fa capire da dove veniamo.
I secoli di vita che portiamo dentro.
Il nostro eroe viene dal mare, da barche piene di pesce morto e vivo.
Da locande fumose e luride, dove litri di vino hanno cancellato la storia, e fatto perdonare destini.
Da grotte fetenti dove è nato, ha amato e ha generato, donne con la stessa voce e lo stesso odore di Alessandra.
***
Febbraio è un mese di merda, troppo breve. Ti svegli dal torpore post natalizio ed è subito marzo. I negozi disperatamente vuoti, le insegne strillate: cedesi tutto a prezzi di costo.
Il nostro eroe corre come un forsennato sulle sue quattro-cinque piste di sopravvivenza, una scellerata sincronia di eventi lo costringe in giro almeno dodici ore al giorno.
Avrebbe bisogno di un polacco tuttofare alle costole, ma non ha una lira.
Attraversa da "straniero" le strade della città, come se non fosse Napoli, come se lui non fosse di Napoli. Una "idea" d'estraneità che si amplifica nel paesaggio spettrale della città senza colori. Chi è stato emigrante una volta lo è per sempre. Lui, con gli anni non trova più specchi che gli rimandino l'immagine che ha di se. Non riconosce se stesso nella sua storia, nella affannata vita quotidiana, nei vicoli bui di questa città fredda e alienata. Cammina come un profugo ben vestito, sognando solo di ritornare in fretta al Pallonetto, il suo bunker esistenziale.
"Notte vieni che voglio dormire.
La terra è fredda come la morte.
Voglio dormire e non voglio sognare.
Lavarmi i piedi e sprofondare - Scomparire.
Dal mio giornalaio e dai suoi giornali.
La sua maschera tetra.
Ogni mattina più irritante.
Ogni mattina più mia.
Questa pioggerellina isterica e stronza.
A Milano se piove ti porti un ombrello - a Napoli ti lasci bagnare-
Come uno stronzo.
Calore - colore - troia, ho fame -voglio mangiare.
Voglio una piazza e una pizza.
Voglio mangiare senza ingrassare.
Fuggire senza scappare.
Notte vieni che voglio dormire.
La mia terra è fredda- sembra morta.
***
Carotenuto: Maltagliato dove sei? Ti ha preso la bomba?
Maltagliato: sono qua...sono vivo...corri... chiama aiuto che tra un po' finisce l'aria.
Inizia così il racconto del vecchio, più che una storia è un monologo senza cronologia: si passa dall'infanzia in Africa, alla guerra, soffermandosi sulla donna amata e mai avuta e su Marchetto, un vitello molto allegro che giace arrostito in un grosso piatto al centro della tavola.
Il nostro eroe è ubriaco come quasi tutti i suoi commensali, siamo a Cavolino provincia di Lecce. La casa è umile, l'odore della terra e dei campi si sprigiona da ogni oggetto: dal terribile lampadario anni 60 arancione, alla tovaglia buona, tirata fuori per gli stranieri. La moglie di Maltagliato ha i capelli bianchi, tirati all'indietro da un grosso cerchietto di plastica nero, il suo viso è puro, come quello di una Madonna invecchiata bene. Le mani, non avvilite dagli anni e dal lavoro duro, carezzano la testa del pupone, tentando di vincere la sua diffidenza ad accettare il terzo bis del povero Marchetto.
Il nostro eroe è felice, si abbandona alle carezze della moglie di Maltagliato e alla carne tenerissima di Marchetto.
Sembra uno di casa, ma è arrivato per la prima volta in paese solo da poche ore per fotografare il gruppo dei cantori folk di Cavolino, di cui Maltagliato fa parte da sempre.
Maltagliato ha la giacca buona, quella da caccia di velluto marrone piena di tasche, un narcisismo sfrenato e ingenuo gli fa tenere in gran conto il fotografo, quasi più dell'altro straniero: un cantautore napoletano appassionato in "antropologia musicale".
La luce del giorno si spegne, il paese dall'alto sembra immerso nel tempo, gli stranieri decidono che è ora di rientrare.
Il viaggio è cupo i due sono in silenzio, comprendono in modo diverso e incomunicabile la loro "corruzione", il ritmo alienato e oscuro delle loro esistenze post industriali. L'autostrada è deserta, solo il trillo fastidioso del telefonino del cantautore, interrompe l'attimo di comune, struggente malinconia.
***
La scena si svolge alle porte di Roma in un castello di campagna.
Il nostro eroe incravattato e più scoglionato che mai, presenzia con moglie e figli al matrimonio di suo cognato.
Una carneficina di pellicce, alcune di pessimo gusto, si aggirano minacciose attorno al pupone.
La divisa degli uomini consente solo poche variazioni di tema: qualche cravatta sgargiante, dosi massicce di gelatina e pochi orecchini.
Nel cesso, i sobri professionisti sniffano a turno cocaina.
Ogni invitato ha una razione di cibo sufficiente a sfamare una famiglia africana un anno. Per fortuna c'è del buon vino e una modella di colore, a cancellare i suoi ottusi sensi di colpa.
Il nostro eroe giace sfinito al tavolo degli sposi, abbozza svogliatamente dialoghi confusi con i suoi strafatti commensali.
Un intenso dolore ai piedi sale attraverso tutto il suo corpo, fino a raggiungere un punto imprecisato del cranio.
Guarda con estraneità la scena e pensa a quelle scarpe eleganti che lo torturano, alle occasioni in cui le ha usate: il suo matrimonio, il funerale del padre e il battesimo del primo figlio.
Ha avuto regalato quelle scarpe dal papà di Pippo, che voleva sdebitarsi di un lavoro non retribuito: una specie di perizia fotografica ad un suo castelletto malmesso, per ottenere, con un po' di furbizia, fondi per la ricostruzione del dopo terremoto.
Ricorda per un attimo il suo corpo scattante di allora, quel vago sentimento di potenza dei vent'anni, un altro se, con il quale non riesce a fare i conti.
Osserva i suoi commensali, le loro capigliature lucide come i loro occhi schizzati dalla coca e studia il modo di tagliare la corda, senza far incazzare la moglie. Per fortuna il piccolo Francesco si addormenta e gli fornisce l'alibi per un allontanamento provvisorio.
Evita in scioltezza brindisi e taglio della torta e da un comodo divanetto, isolato quanto basta per essere tranquillo ma osservando il viavai, aspetta l'ora dell' agognato rientro.
Intorno a mezzanotte convince la moglie ad andare via, tanto si sarebbe incazzata anche all'una. Nonostante l'enorme e inutile sforzo ad essere qualcosa che non è, non riesce a renderla mai felice.
***
Venezia, martedì grasso.
Il nostro eroe si aggira infreddolito tra la folla, lo spettacolo è penoso: migliaia di finte maschere si aggirano tra turisti e fotografi.
I fottutissimi anni 80 hanno rovinato tutto, carnevale di Venezia compreso. Prima era una festa spontanea e originale, sentita dalla popolazione e animata da giovani stravaganti e ribelli, oggi, è una spaventosa macchina "succhiasolodiamericani".
Nulla di vero, nulla di suggestivo, solo una squallida fiumana di folla informe. Il nostro eroe pensa intensamente al mondo prima dell'AIDS, prima della "riflussomologazione", prima della fine delle utopie e dell'avvento del biscione planetario, che tutto ha stritolato e ha trasformato in consumo.
Ha viaggiato tutta la notte in macchina, con il musicista che gli ha commissionato il reportage sul suo concerto ed è stata un'esperienza drammatica. Hanno litigato quasi tutto il tempo e su ogni argomento che hanno affrontato. Per il cantante è una sorta di esercizio yoga "scacciatensioni", ma di solito ha interlocutori passivi e adoranti.
Un'arroganza che sfocia, prima delle grandi occasioni, in sopruso, poi, dopo l'avvenimento, diventa zuccheroso e amicone, si aggira tra i suoi musicisti e collaboratori elargendo carezze alle donne e grappe agli uomini, ricucendo, senza umiltà gli screzi della vigilia. In pratica: sono stronzo e me ne vanto, se sei qui lo devi a me, se mi molli è una grande occasione persa per te.
Il freddo e il sonno costituiscono un ostacolo insormontabile al benessere del fotografo, che approfittando del carnevale sfoggia un improbabile copricapo modello preservativo e in effetti, è la maschera più originale.
Alle 11,30 precise, onde evitare pericolose trasgressioni ai turisti, finisce il concerto, il gruppo si sposta al Bar, dove dopo un paio di grappe, il nostro eroe chiede il sudato mezzo milione di compenso.
Il Cantante, estrae con gesto nobile il carnet degli assegni e domanda al fotografo un piccolo sconto.
Più disgustato che mai il pupone pensa ai circa dieci milioni di parcella che l'altro ha appena incassato e risponde: a Napoli ti offro un caffè.
***
E' umiliante perdersi nella propria città, più che altrove: si sente minata l'intima identità, come se una strada, colpevolmente sconosciuta, cancellasse le nostre certezze geografiche.
"Il funerale è alle 16,30, arriveremo ultimi, la morte non mi fa più quell'effetto dirompente di qualche anno fa, è quasi scontata... sarà che invecchio e che le "morti vicine" sono esponenzialmente cresciute, o che la morte entra lentamente nella mia vita quotidiana e si nasconde negli oggetti caduchi, nei passaggi furtivi per i luoghi dove ho già vissuto ...
Questo giro per le periferie napoletane alla ricerca di Arzano e della sua morta, questa stessa macchina con mamma malconcia e le mie sorelle che improvvisamente mi sembrano anziane, mi rimanda ad altri funerali, a quello del nonno, di mio padre o forse al mio."
La "processione" ha aspettato i ritardatari per incamminarsi sul vialone semi autostradale, i visi dei parenti hanno angosciose somiglianze, che annullano distanze di "vite diverse". La bara è portata in una chiesa disadorna che originariamente doveva essere un garage. Il prete è veloce, una predica banale e confusa, scandita in un dialetto da frontiera. Dopo, tra lacrime e traffico ci si saluta, niente cimitero, i "beccamorti" il pomeriggio non lavorano, così la bara sarà trasportata a un deposito.
La defunta è una zia del nostro eroe, lascia un marito di 85 anni e sei figli incasinati.
Eccoli di nuovo in macchina, una strana allegria prende alla gola, come se fossero bambini e il funerale gli avesse fatto saltare la scuola.
Si maligna sulla cugina troia, sulla sua capacità di restare giovane; sullo zio, sul triste destino.
Si riattraversa con stupore l'abominevole hinterland napoletano, fino a Volla, dove s'imbocca la tangenziale. L'uscita è la numero 9, Vomero.
Il nostro eroe si fa lasciare all'inizio di Via Tasso, s'incammina verso il suo studio, la strada è molto lunga, ma ha voglia di camminare. Ha trattenuto la pipì per troppo, cosi si apparta e piscia in un angolo.
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Viscido. Come provare a trattenere una rana in mano è schiacciata o persa.
Il nostro eroe conta i giorni, le ore, gli istanti che si susseguono nella sua disordinata esistenza. Il tempo oggi è come una rana, gracchia imprendibile, più per il disgusto che provoca che per la sua abilità.
Napoli è maestra del tempo perduto, della chiacchiera fine a se stessa, libera la rana che è in ognuno di noi, in uno stagno dove si nota solo chi gracchia di più. Il ragazzo-uomo tenta di afferrare almeno le sue parole, il suo tempo, ma è un tentativo goffo e inutile, anche lui gracchia dentro il fango dell'inerzia, della "provincialità".
Ha trascorso l'inverno a distribuire biglietti da visita, una diffusione capillare che ha causato in primavera, una valanga di telefonate di aspiranti hostess che desiderano, in nome d'antiche amicizie, qualche foto gratis. Tutti attratti da facilissimi guadagni, aperitivi in alberghi di lusso, auto da corsa, week-end a Capri e via cosi, senza un'ora di vera fatica, senza una lira al nostro pupone.
Un'inquietante quantità di vane parole per spiegare la propria disponibilità a sinergie professionali, migliaia di caffè, birre, sigarette consumate in discussioni sempre uguali.
Il nostro eroe è consapevole di tutto questo, eppure continua a gracchiare, come se fosse rassegnato all'inevitabile leggerezza del parlare.
L'ultima e la più paradossale conquista professionale è una certa Rita, artista quarantenne sempre in bilico fra il totale oblio e un qualche minimo riconoscimento cittadino. Sempre in cerca di fotografi gratuiti: ne ha anche sposato uno ma allora almeno era giovane e bella.
Rita vuole fare una ricerca sulla sua immagine, colorare fotografie non sue di lei mentre mangia o piscia; ha scelto il pupone per farsi ritrarre e periodicamente gli telefona per sottoporgli le sue ultime, folgoranti intuizioni.
Rita: sai ho pensato che potresti fotografarmi sullo sfondo del Vesuvio mentre mangio un pomodoro che mi cola sul collo, una sorta di totem della città, di mediterranea eleganza.
Intanto i mesi passano e per fortuna di fotografie a Rita neanche l'ombra.
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Luca ha sessanta anni, ha fatto di tutto nella vita per tirare avanti. Da bambino lavorava nella bottega di fabbro del padre, poi ha iniziato a fare lo stampatore di fotografie fino a diventare lui stesso fotografo, ha aperto una galleria di fotografie che è fallita, ha contribuito alla nascita e alla chiusura di numerose associazioni culturali, scuole d'arte e società commerciali. Oggi, fa il ballerino e l'insegnante di tammurriata, saltuariamente l'attore caratteriale in teatro ed è ancora fotografo. Vive in una specie di comune insieme a giovani sbandati, lontano dai figli e dai suoi matrimoni falliti. Come fotografo vale tecnicamente poco, come uomo, ricorda quella sinistra demagogica e retrò, eppure il nostro eroe ha per lui un'innata e gigantesca simpatia.
Quella finta ingenuità che si porta dietro e fa perdonare il suo pressappochismo, nasconde una furbizia forgiata nella fame, nei troppi lavori sbagliati, nell'irresponsabilità culturale di tutta una vita. Solo qualche anno fa il nostro ragazzo-uomo l'avrebbe odiato, ora, suo malgrado lo ama.
Periodicamente Luca va al suo studio, accompagnato da qualche fan frocetto e adorante, interpretando magistralmente il ruolo del vecchio artista anarchico e puro.
Una recita sempre uguale, con le stesse battute e gli stessi aneddoti, nella quale oramai anche il pupone partecipa da spalla, da conferma generazionale alla sua finta follia.
Per il nostro eroe, Luca è una maschera grottesca, un pulcinella post- moderno, con tutta la sua infida meschinità e la sua alta poesia.
Una maschera ambigua, dove convivono e combattono il vecchio ruffiano che vende patacche ai turisti e scrocca gli avanzi di cibo ai potenti come un buffone di corte con il vecchio pescatore, solitario e folle, incapace di vendere bene il suo pescato, triste di rabbia e di sale. Una guerra intestinale che è in fondo la sintesi della vita del nostro pupone, della sua "leggera decadenza", una guerra senza vincitori ma solo vinti.
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La madre di Eva è nata in Russia. Diventata sovietica è fuggita dai bolscevichi approdando in Italia, dove prima dell'emanazione delle leggi razziali, si è sposata un medico e ha avuto una figlia. Dopo il 38 è in Polonia, all'indomani dell'invasione nazista è in America Latina, poi, di nuovo in Italia. Ha sempre orgogliosamente mantenuto da rifugiata, la sua nazionalità Russa, ma con il crollo del muro di Berlino e la normalizzazione dello status di tutti i fuoriusciti, è diventata, suo malgrado, italiana e per giunta d'origine polacca, provenendo da una cittadina che nel frattempo era diventata polacca. Un brutto scherzo del destino che ha coinvolto anche le sue tre figlie, la prima italiana, la seconda polacca e la terza peruviana. Eva è la terza, arrivata in Italia nel 57 ha sempre fatto la corallara, da adolescente presso la bottega di alcuni parenti, poi sola in un bugigattolo vicino allo studio del nostro eroe. Eva giovanissima ha sposato un italiano, un figlio dei fiori di provincia che la ha abbandonata, abbracciando un cattolicesimo rassicurante e oltranzista, ha due figli con cui non ha nessun rapporto e le sorelle hanno rimosso la loro storia.
Eva, per tutti, Eva la pazza, si è persa dietro le tracce della sua vita, della sua assoluta diversità. Una disperata ricerca di identità, che la ha spinta troppo oltre, in una follia estrema e delirante, dove però ha ritrovato se stessa: la bambina ebrea in fuga dal mondo che canta la filastrocca della speranza.
Chissà perché accettiamo solo la follia dei bambini?
La loro disarmante lucidità, quelle assurde domande alle quali non sappiamo rispondere: perché il nonno non c'è più? Perché l'uccello vola e l'asino no? Perché Maria deve andare a Milano e non resta con me? Perché, a volte, ho paura?
Eva è una domanda senza risposta, un brivido gelido che sale lungo la schiena e ci crocefigge nei nostri letti la notte.
La stramba del vicolo c'importuna di giorno, con il suo ignobile delirio che il sole sa rendere ridicolo, ma che contorce le nostre viscere la notte, perché è il lato oscuro dei nostri sogni, la subdola vendetta alle nostre responsabilità.
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Il sottoscritto Akul K...
Una semplice auto certificazione che il nostro eroe deve compilare alla presenza della maestra del figlio, per giustificarne l'assenza a scuola, diventa, da operazione banale e veloce, a una intima e lacerante sconfitta che mette l'ego del pupone in crisi.
Suda, arrossisce e tentenna, lui laureato e scrittore per hobby, non riesce a scrivere nulla in pubblico.
Giorni fa doveva fare un assegno ad un avvocato di cinquecentomila lire, ha scritto cincquecentomila.
Una lunga serie d'incidenti incresciosi, dei quali si vergogna come un ladro e di cui non riesce a capirne il motivo.
Anche il suo linguaggio in pubblico è terrificante, si impapina e si contorce in sbagliati ghirigori linguistici, anche per dare una semplice indicazione a un passante.
Una dislessia latente che ha origini nella sua infanzia, nel suo disordine mentale, costante nelle varie ere della sua esistenza.
L'asilo, saltato per incompatibilità ambientali, la prima e seconda elementare trascorsa in una scuola privata a giocare al mosaico con una vecchia e compiacente suorina mentre i compagni navigavano nelle tessere dell'alfabeto. Il passaggio ad una nuova scuola, per evitare una bocciatura, dove trascorreva le ore di lezione a rubare merendine e infliggere punizioni fisiche e morali agli altri bambini. Le medie, in cui con la sua strana intelligenza riusciva a farsi perdonare lacune già incolmabili e il liceo, il paradosso della sua finta integrazione: sbagliava tutti i calcoli, ma aveva anche sette in matematica perché individuava sempre i percorsi per la risoluzione dei problemi, traduceva il latino a culo e faceva lo stesso numero di errori degli altri o in italiano, dove un professore frocio era talmente attratto dalla sua strana scrittura che gli perdonava qualsiasi errore grammaticale.
L'università, una farsa conclusa con un terrificante 96.
Non riuscirebbe a scrivere correttamente il suo nome con una vecchia macchina da scrivere, a volte dimentica la posizione delle lettere nell'alfabeto, eppure ha anche letto molti libri da quando aveva circa sedici anni, ha si saltato tutta la letteratura per ragazzi e non ha mai letto un fumetto, però ha letto tutto Proust.
Insomma come metalmeccanico sarebbe troppo colto, come scrittore borghese troppo ignorante.
***
Il frocio piange, bussa disperatamente alla porta del santuario. Bussa ma nessuno apre. Il sole lentamente sorge, sono circa le 6.30, quando il prete apre. Il frocio entra in chiesa, seguito da una ventina di fedeli ubriachi, sempre piangendo. Depone la sua tammorra ai piedi della Madonna e intona una canzone, l'ultima della festa delle galline.
"Mamma d' 'e galline mia miettece a mano toia, a' figlio..."
Siamo a Teia, provincia di Salerno, dove ogni anno s'incontrano, in un'atmosfera tra il sacro e il profano, i tammurrianti di tutta la Campania. La Festa dura tre giorni, ma è l'epilogo, con il suo grottesco senso di sciagura e la sua deviante teatralità, ha coinvolgere il nostro eroe. Piangono tutti, i reduci dalla notte di sballo, le vecchiette del paese appena svegliate e il pupone.
La situazione durante i tre giorni ricordava più un party dell'orgoglio omosessuale che una festa religiosa. Il paradosso di una tradizione che si tramanda attraverso percorsi sinusoidali e assolutamente illogici: la tammurriata tradizionalmente eseguita da donne, adesso trova nei gay i massimi interpreti, acuendo e dilatando il senso pagano e tragico di questo ritmo.
Tonino, il frocio non ha età, scarno, quasi scheletrico ha il volto stanco e malato. Il suo sguardo emana una limpidezza che ricorda il dolore della madonna e al tempo stesso, quello di Gesù; lei sotto e lui sopra la croce. Una distanza storicamente incolmabile tra la madre impotente e il figlio ferito a morte, una separazione di destini lacerante, che lui fonde in un'intima orgia di fuoco: la sua croce.
È capace di incarnare i dolori di entrambi, in un misto di sofferenza fisica e morale che il suo essere androgino unisce e amplifica paurosamente. Come se quel rito, ripetuto anno dopo anno con lo stesso copione, avesse al suo fondo qualcosa di terribilmente vero.
Sono ventidue anni che ripete la scena, nessuno ricorda la "pacchiana" che l'interpretava prima e nessuno si è fatto avanti per il futuro.
"Mamma d'e' galline mia pigliate sto core e daccene n'atu nuovo, a figlio...o mamma, mamma schiavona, aprace stu portone, a figlio..."
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Ore due di notte, centro sociale occupato officina 99; il nostro eroe aspetta paziente un ragazzo di officina, dal quale ha scroccato un passaggio. Divide l'angoscia dell'attesa con un cucciolo di terranova di pochi mesi. Davide, il padrone del cane e della macchina è andato a cercare dei tizi di Casoria, che con la loro Uno grigia gli bloccano l'auto. Il fotografo, si è messo in testa di realizzare un servizio sull'integrazione razziale attraverso la musica, idea del cazzo, visto che a Napoli a stento si integra qualche calabrese: nelle quattro ore di presenza al centro, durante la serata a tema "siamo tutti clandestini", non ha incontrato neanche un negro. La sera precedente, stesso tema, era andata meglio, su trecento bianchi c'era un nero: un dj di Burkina Faso. "La curiosità uccise il gatto" così ci riproverà domani.
Davide è uno studente di scienze politiche, quella che ha fatto il nostro eroe e che secondo l'autorevole parere del suo professore di storia, si poteva affrontare studiando la mattina sul cesso, ma evidentemente aveva torto, visto che a trent'anni suonati a Davide, mancano alla conclusione tre esami.
Hanno trascorso la sera a chiacchierare piacevolmente, come due amici quasi coetanei, senza diffidenze e senza asperità ideologiche.
Il nostro eroe ha lodato il clima di apertura, che a differenza di dieci anni fa, ha riscontrato e ha elencato al suo interlocutore alcuni esponenti dei centri sociali, che lo avevano definito "fotografo borghese e di regime" e che adesso svolgono le nobili mansioni di commissario, commerciante nell'azienda di famiglia o manager di gruppi musicali commerciali.
Davide era un po' infastidito dal sarcasmo ma, tutto sommato, era d'accordo.
Per lui non vede nitidamente un futuro, non ha progetti né legami e una volta laureato, vorrebbe andare a Barcellona per qualche anno, dove fare più o meno la stessa vita che ha fatto a Napoli negli ultimi dieci. "Io sono figlio di operai, vengo da un paese di seimila anime e mio padre laggiù è benestante perché non sa come spendere i soldi. Cosi mi ha aiutato e mi aiuterà, anche se non condivide la mia vita o il fatto che non vado mai al paese. Io non ho niente da dimostrare, se non la cosa di riuscire a rimanere me stesso."
Si salutano a Piazza Plebiscito, per un attimo il nostro eroe è stato indeciso se invitarlo al battesimo del figlio il giorno dopo.
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Il nostro eroe è dal dentista, sembra un bambino cretino; impaurito e goffo chiede altra anestesia. Avrebbe voglia di piangere: quel rumore del trapano gli fa quasi più male del trapano stesso. Il dentista è incazzato da tanta fragilità, guarda la sua assistente come per dirgli: che s' adda fa pe' campà. Pochi minuti di meschino calvario, poi è in funicolare, la bocca puzzolente e impastata e nel cervello l'umiliazione di non essere stato neanche questa volta eroico.
In funicolare il solito albino che vende oggetti senza valore e ripete a memoria sempre lo stesso discorsetto. " Non sono tossico, ma sapete che come albino ci vedo poco e debbo mantenere due figli, questo è il mio modo di campare veramente onestamente. Ho dodici spagnolette, in un negozio le trovate ad almeno sei-settemila lire, io ve le do a duemila lire. Otto cacciaviti di precisione, almeno diecimila lire, io le vendo a tremila lire, quattro accendini ricaricabili, duemila lire...buon appetito"
Passa con il suo paniere di plastica accanto ai viaggiatori e ripete ad ognuno la stessa frase: serve qualcosa? Il nostro eroe non compra mai nulla, anche perché associa l'albino al suo dentista.
Guarda incantato la ripida discesa inizia a sognare...
"Messico, dopo aver incontrato in un luogo segreto il sub comandante Marcos, suo intimo e fraterno amico, il nostro eroe è fatto prigioniero da agenti segreti.
Vogliono catturare il sub-comandante, ma il pupone non parla. E' torturato da un dentista maiale che gli apre otto molari senza anestesia, soffermandosi sui nervi scoperti. Niente, l'eroe non si piega e loro, per evitare un incidente internazionale, debbono rilasciarlo.
Sconvolto riesce a partire per Cuba, dove è ricevuto da Fidel Castro, che gli bacia le mani e lo affida ai migliori dentisti locali.
Uno psichiatra gli spiega, con ammirazione e rispetto, che d'ora in avanti avrà paura del trapano e del suo rumore.
Il nostro eroe è troppo orgoglioso perché spieghi al suo dentista l'origine della sua fragilità "trapanesca", così preferisce passare per fesso.
La funicolare arriva a Piazza Amedeo, il sogno ha avuto un effetto piacevole sul pupone, che con sguardo orgoglioso e sognante si avvia al suo studio. La giornata è bella, lui, in questo preciso istante, è sicuro di meritarsi un bel caffè.
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La nave parte con circa tre ore di ritardo, il nostro eroe saluta la moglie e va a cercare un bar, per fortuna ci sono gli europei di calcio, una bella partita e una buona birra.
Al bar siede ad un tavolino, dopo alcuni istanti arriva Alessia, ex fiamma adolescenziale, accompagnata da un ragazzo-uomo, prendono tutti la stessa nave, così si decide di stare assieme.
Qualche frase sbrigativa per colmare il vuoto di tre lustri di mancati incontri, poche battute su amici comuni e molta televisione: i due maschi sono troppo concentrati e iniziano inconsciamente a scavare un vuoto attorno alla femmina.
Alessia ha circa trentatré anni, capelli neri con una leggera venatura di bianco, il corpo appesantito da qualche chilo di troppo, lavora a Napoli nello studio di ingegneria del padre.
Simone ha trentasette anni, romano, vive con i genitori e un fratello più giovane, lavora saltuariamente in qualche villaggio turistico "underground".
Alessia ha il volto stanco, è innervosita più dal suo Peter Pan che dall'enorme ritardo della nave, così decide, una volta a bordo, di prendere una cabina letto, si accorda con una vecchia signora e sparisce.
I due "amichetti" nonostante si siano appena conosciuti iniziano a ciondolare sulla nave, bevendo birra e chiacchierando liberamente.
Simone è incuriosito dalla paternità del nostro eroe, lui è andato vicino ad una storia normale con una donna dieci anni fa, da allora solo flirt e amicizie a sfondo sessuale, anche con Alessia si frequenta saltuariamente e senza nessun impegno formale da circa quattro anni, non si vedono per sei mesi, poi si fanno un fine settimana a Capri o un "viaggetto" in Sicilia.
Questa volta però è stata traumatica, improvvisamente si è accorto di quanto fosse invecchiata la sua amica, come se il tempo fosse passato solo per Alessia costruendo una barriera di incomprensioni che prima non c'era. Simone riflette, smorzando per un attimo l'atmosfera di festa: "Ormai è un treno perso, forse per me l'ultimo".
La serata scorre velocemente, hanno parlato di tutto e con molta intimità, verso le due decidono di andare a dormire al bar, si tuffano mezzi sbronzi sui divanetti e scompaiono in un sonno piacevole e pesante. Arrivati a destinazione si salutano con calore.
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"Se io faccio un discorso sull'alcol, in ogni caso accomuno persone molto diverse fra loro, con la caratteristica comune di essere alcolizzate, capisco che ogni storia è diversa, però se voglio farci un cazzo di discorso debbo per forza generalizzare e comparare."
Il nostro eroe è sul terrazzo di casa, la moglie e i figli sono al mare, è in compagnia di Andrea e una sua amica, hanno appena finito di mangiare e la discussione sembra aver preso una piega pericolosa.
Da un po' di tempo il pupone passa quasi per fascista, la sua logica si incattivisce sempre di più. Andrea, invece, da "disfattista dialettico", sostiene l'assoluta incompatibilità di esperienze simili, perché vissute da persone diverse. Il nostro eroe tenta di far cadere la conversazione, ma oramai gli animi sono surriscaldati e si va allo scontro frontale.
Andrea: sei un superficiale, come puoi paragonarmi ad uno sconosciuto qualsiasi.
Eroe: ho semplicemente fatto prevalere dei punti in comune e mi sono soffermato su quelli.
Andrea: tu cosa né sai di me?
Eroe: so soltanto che non hai una donna fissa da sei anni e solo su questo punto ti ho paragonato ad una massa enorme di nostri coetanei. Non sto dicendo che siete uguali.
Andrea: Appunto tu e la tua massa, ci guardi dall'alto come un sacerdote e ci giudichi, forse perché hai i figli e una vita normale.
Eroe: io sono uno che ha generato, tu sei solo generato; tu sei figlio, io padre senza più padre, ma non è questo, è che le persone come te si nascondono dietro finte differenze solo perché non sanno riconoscersi più in niente.
Andrea: tu, eroe del cazzo, in cosa ti riconosci?
Eroe: Non mi sto mettendo sopra nessuno, la mia era, una semplice osservazione statistica sul fatto che molti miei amici, tra i trenta e i quaranta anni, non hanno un ruolo sociale, un lavoro, una relazione stabile e neanche una casa, tu compreso.
Andrea: questo non è giudicare? -----Eroe: no, è osservare.
Andrea: cazzo, ma come fai, non vedi le sfumature.
Eroe: tu vedi solo quelle, Dio, sto solo elaborando un dato statistico sul mio universo sociale, non lo sto giudicando.
Andrea: la verità è che tu giochi con le parole e ti sfugge il mondo...
***
Notte, il nostro eroe ha voglia di scassarsi a birra. E' andato di proposito nel peggiore bar che conosce in zona. La scena è cupa: quattro o cinque tavolini occupati da orribili ragazzi, il pupone solo in un angolo e un frocio dalla parte opposta.
Il frocio ha la carnagione bianco latte, i capelli radi e riccetti con un ignobile riporto, fuma Multifilter blu da un bocchino dorato. Mangia guardando i tavolini con lo stesso sguardo cupo del pupone. Al bar si discute di vacanze, di soldi, di puttane latino americane molto economiche e molto bone. Sulla loro capacità di fare del sesso mercenario con passione: "quella, per quindicimila lire in più, mi ha ficcato tutta la lingua nel culo." Il nostro eroe è alla quinta zero quaranta.
Non ha voglia di niente se non di birra, ordina la sesta pinta alla cameriera mulatta di Secondigliano ma orgogliosamente originaria di Materdei e ascolta. Il frocio non sembra interessato ai dialoghi, s'ingozza con particolare ingordigia e scruta la parte bassa dei presenti.
Sono quasi le tre, quando riesce a chiedere il conto e brancolando si avvia a casa. Il caldo, la strada e la birra gli annullano l'effetto della doccia pomeridiana, arriva a casa tutto sudato, si odora le ascelle, annusando il suo odore acido e si spoglia lanciando svogliatamente i vestiti sul divano dell'ingresso.
E'solo, la moglie è al mare, non ha sonno, si aggira nudo per casa, ha paura delle due notti precedenti cariche di sogni inquietanti: l'altro ieri ha sognato di soffocare con una biglia di metallo, ieri, che migliaia di foglie secche gli coprivano il corpo.
Attacca i resti di una bottiglia di Whisky, si butta ignudo e puzzolente sul divano e accende il televisore. Cerca un film porno, la storia è quella di un improbabile rapimento di una donna in calore, poi, quando l'uccello gli diventa appena un poco duro, si spara una sega lenta e feroce.
Spegne la televisione, raccoglie le poche energie che gli sono rimaste e si butta sul letto. Non sogna nulla, è salvo.
***
Non ha ancora finito quel dopobarba, sono quasi due anni che lo ha, ma questa mattina forse finisce. Glielo ha regalato sua madre poco dopo il funerale. Donna energica e concreta ha agito a caldo, senza aspettare che il tempo donasse una sacralità agli oggetti del defunto. Così, dopo pochi giorni si è disfatta del guardaroba del marito: l'orologio lo ha regalato al filippino pseudo-infermiere, le scarpe al primogenito, gli accessori al pupone.
E' strano, ma in quasi due anni, assecondando l'intuito materno, non ha mai ragionato sull'origine di quell'odore troppo familiare.
Non ha pensato agli ultimi tempi, quando dopo aver raso il padre invalido, apriva quell'enorme bottiglia bianca di dopobarba di second'ordine e rinfrescava il volto del malato.
La morte ha una superiore capacità di sintesi, riassume la vita di un uomo, il rapporto intimo e terribile di un padre in fin di vita e suo figlio, il dolore di una malattia invalidante e migliaia d'immagini e ricordi cupi o felici in una bottiglia di dopobarba quasi vuota.
Pallonetto di Santa Lucia, interno cucina, il nostro eroe guarda la bottiglia, finalmente è finita, è indeciso sul da farsi: non vuole conservarla ma neanche buttarla. La osserva e riflette.
Improvvisamente ricorda la mattina che fu svegliato all'alba perché suo padre doveva essere ricoverato d'urgenza, il viaggio nevrotico per Napoli, il padre nel letto ancora cosciente e presente, la scarica finale che lo ha paralizzato e costretto in uno stato quasi vegetativo gli ultimi tre anni di vita.
La giornata era fredda, un vento di tramontana donava alla città dei colori assurdi, il nostro eroe teneva la mano del padre nella sua, dalla finestra dell'ospedale si poteva vedere il mare, quella parte di golfo su cui domina il Vesuvio, erano anni che non osservava il suo vulcano come un mostruoso presagio di morte.
La mente del nostro eroe torna al presente, alla giornata da incominciare, ripone la bottiglia vuota nel bagno, ha scelto: la butterà sua moglie una di queste mattine, quando si accorgerà che è vuota.
***
Generale: se ti serve qualcosa chiamami, mi hanno licenziato.
Eroe: andiamo, ti offro un caffè e mi racconti.
Il generale non è mai stato neanche sergente, il suo è solo un soprannome, un appellativo con cui il nostro eroe lo sfotte. Fino a questa mattina era il bidello dell'asilo privato che si trova proprio sopra lo studio del pupone.
Generale: quelli a settembre chiamano un'impresa di pulizie e con poco più di seicentomila lire al mese se la cavano, uno stipendiato in meno e poi l'impresa non rompe.
Eroe: col cazzo, l'impresa non sarà mica sempre disponibile.
Generale: dividono il mio lavoro tra le maestre, tanto se si lamentano gli danno un calcio in culo, la segretaria e naturalmente l'impresa di pulizie, vedrai non avranno nessun problema.
Eroe: non avevano problemi neanche con te, poi, di soldi ne fanno un fottio, spilorci di merda, cambiano linoleum tutti gli anni, i proprietari vanno in giro che sembrano un gangster e una troia americana e fanno economia sfondandoti il culo.
Generale: non ti incazzare, io me la cavo sempre. Prendiamoci il caffè in santa pace, alla faccia loro.
Il generale è sulla cinquantina, di contributi, in quasi quaranta anni di attività, ne ha visti pochi, tra lavoro nero, precariato e arrangiamenti vari, riesce a stento a mettere insieme una decina d'anni di "marchette".
Generale: cosa sanno loro di me - delle due ore che impiegavo per arrivare qui -cazzo che ne sanno- la mia famiglia che aspetta il mio stipendio per campare - dover tornare a casa e dire ragazzi a fanculo tutti - a fanculo io.
Eroe: generale, non mi rompere i coglioni, ora ti faccio dei biglietti da visita al computer come tuttofare - piccoli lavori domestici, spostamento mobili, grandi pulizie, idraulica ed elettricità.
Con tutte le troie che portano i figli in questo cesso di scuola e il buon ricordo che hanno di te, camperai meglio di prima. Vieni facciamo i biglietti da visita.
Generale: no - la prossima settimana - adesso vado a finire il mio lavoro. Sono un generale, mica un pezzo di merda come loro.
***
"Le case si intravedono in lontananza. Ogni piccolo movimento degli occhi riporta al nulla di una natura selvaggia. La strada stretta trasporta i secoli a ritroso, più si sale e più si va ad un tempo passato.
Si ascoltano lingue sconosciute, si incontrano sguardi cupi e spaventati dallo straniero. Siamo nell'entroterra della Calabria o forse nell'oceano di silenzio che l'uomo moderno non è ancora riuscito a distruggere. Si sale e si sale ancora, fino a raggiungere i resti di un castello da cui si vedono i due mari, minacciosamente incombenti su una striscia di terra. Poi si scende, si va a prendere un treno a Lamezia. Si mangia un piatto di pasta scotto in una trattoria di periferia e si paga quindicimila lire: "Tanto lo stesso non sareste mai tornati". Si ritorna in un sud fatto di furbizie e ritardi. Il resto è un treno affollato e la voglia di essere già a casa.
Il nostro eroe tenta di scrivere frasi ad effetto sulla sua ultima trasferta professionale: un viaggio tra Sicilia e Calabria, durato quasi quindici giorni. Si concentra, ma non riesce ad inquadrare l'argomento, così al terzo tentativo decide di non scrivere nulla.
In questo periodo nella sua mente tutto si complica, si sovrappongono pensieri antitetici e confusi.
" Quattro uomini nello scompartimento: un emigrante di circa cinquant'anni in canottiera e calzoncini, già verso Paola inizia a puzzare di sudore e pensare che dovrà arrivare in Belgio, un figlio di emigranti con l'accento bolognese e l'aria da scout che a Bologna "fa la mortadella" e non ha mai visto il paese da cui vengono i suoi, un guerriero della notte tutto impomatato che rientra dal week end e un fotografo che scende a Napoli, ma secondo i presenti non ha l'accento napoletano."
Niente, non riesce più a scrivere nulla di sensato. Annaspa come un demente che vorrebbe spiegare i meccanismi del mondo a un fisico nucleare.
"Nel treno alcuni passeggeri si sono barricati con funi e catene negli scompartimenti. Le rotaie lambiscono il mare: a tratti si ha la sensazione di stare per finirci dentro."
***
X: Dottò mica muoio, così, come uno stronzo.
Dottore: No, non muori, un proiettile è nella spalla, è l'altro, quello che hai nel polmone, a rompere i coglioni, ma non muori, almeno per questa volta.
X: sono nù bravo guaglione, tengo venticinque anni e due figli a casa.
Esterno, notte, Pallonetto di Santa Lucia, il nostro eroe è sul terrazzo con un amico medico, aspettano una pizza e qualche birra. Stanno dialogando sul pomeriggio di guardia al pronto soccorso del dottore.
Il nostro eroe si fa raccontare i particolari.
Dottore: quello era freddissimo, a venticinque anni non tremava ne piangeva, anche i familiari erano composti, mentre di solito, in questi casi, l'isteria è normale. C'erano venti poliziotti che lo interrogavano e lui, con due proiettili in corpo, rispondeva da spaccimmo. Due occhi verdi, furbi e fieri, un cazzo di guerriero. Venti minuti dopo l'agguato, che ha lasciato a terra il suo amico crivellato da venti colpi, non aveva il minimo scoch emotivo. Stanotte aspettiamo i giornali, agg'sape.
Arrivano le pizze, i due amici mangiano con voracità commentando il viavai di ucraine sul pianerottolo di fronte.
Eroe: quel cazzo di speculatore manda via gli studenti e affitta i suoi miniappartamenti a decine di ucraine, tre o quattro per stanza, poi va a dormire tranquillo a Parco Margherita e qui sembra un casino.
Dottore: pero sò bone, meglio dei froci scozzesi che c'erano prima.
La serata scorre velocemente, giro tra i bar e poi l'attesa all'edicola.
Il nostro eroe compra il Corriere della Sera, il dottore, il Mattino.
Sul Mattino la notizia è riportata con ricchezza di particolari, ma senza analisi sulla guerra di camorra in atto, mentre sul corriere non è neanche tra le brevi, eppure, a Napoli sono morte sei persone in questa settimana. Il Corriere del Mezzogiorno, riporta la notizia come il Mattino, entrambi hanno un box sulla richiesta di Mastella di un intervento dell'Esercito.
Il dottore legge attentamente i due articoli.
Dottore: nessuno parla del terzo, quello che è riuscito a sfuggire sia ai killer sia ai poliziotti, guarda, sono quasi identici i due articoli, il terzo uomo è scomparso, ma bastava chiedere ad un poliziotto, poi dovevano scrivere che la polizia, persi i killer e il sopravvissuto, era riuscita solo a raccogliere il morto e il ferito da terra.
***
Via Chiaia, domenica 27 agosto, ore 10.
Una coppia di giovani di circa trenta anni cammina tenendosi per mano.
La donna porta al guinzaglio un gatto dal colore argentato. Un vecchio incrocia il loro sguardo, poi continua per la propria strada, voltandosi di tanto in tanto ad osservare il gatto al guinzaglio.
Il nostro eroe si tiene a distanza, conosce bene quella coppia apparentemente normale, se non fosse per il gatto, nessuno li noterebbe.
La strada è deserta.
La donna ha i capelli neri ricci e lunghi, un discreto corpo e un portamento elegante, i suoi occhi sono azzurri scuro e staccano in modo meraviglioso dalla sua faccia spigolosa e chiarissima.
L'uomo ha uno sguardo cupo, almeno dieci chili di troppo e un passo troppo lascivo.
Entrambi sono nati a Sorrento da famiglie abbastanza normali, ex eroinomani vivono facendo l'elemosina. L'idea vincente per i loro guadagni è quel gatto argentato, che attirando i passanti più di qualche arto amputato, li fa incassare circa centomila lire al giorno.
Le domeniche, soprattutto quelle vicino a natale o a pasqua, riescono a racimolare anche trecentomila lire.
Eppure, a dispetto di un discreto guadagno, dormono nell'androne di un palazzo incustodito nei pressi di Piazza del Plebiscito.
La mattina presto, intorno alle sette, lei da buona padrona di casa, ripulisce l'androne e getta via i contenitori occasionali che usano per i vari bisogni, mentre il compagno si attarda pensieroso sul suo cartone-letto. Il loro aspetto è sempre più che decente, quasi signorile.
Il nostro eroe accelera il passo e li raggiunge.
Eroe: allora sempre in giro.
Lei: oggi non c'è un cane per strada, andiamo alla Villa Comunale e tu?
Eroe: vado allo studio a leggermi il giornale.
Lui: quest'estate (interrompe per alcuni lunghissimi istanti il dialogo come se stesse cercando le parole da qualche parte) quest'estate è andata uno schifo. Tutti via e turisti pochissimi.
Eroe: perché non andate fuori anche voi?
Lei: noi qui ci sentiamo liberi, tu non riesci a capirlo, ma abbiamo il nostro equilibrio (lentamente proietta i suoi occhi sul compagno con una dolcezza infinita). Riuscissimo solo a non farci più.
***
Il terrazzo era il luogo più fresco della casa, così Nadia invitò i suoi ospiti a sistemarsi sulle sedie nuove sotto un gazebo di plastica.
Il vino bianco e freddo creò subito un'atmosfera piacevole e la piccola comitiva decise di trattenersi lì per la cena.
Roma, Viale Trastevere, estate 1993.
La cena, frugale ma di classe, fu servita in modo informale. Tutti, tranne il nostro eroe, si defilarono intorno alle 23.
La padrona di casa aveva circa trentanni, era da poco sposata con un amico del pupone e non ebbe, nessun imbarazzo, a rimanere sola in casa con lui.
Giovanni, il marito era fuori per lavoro.
Il dialogo vivace ed intimo era abbastanza serrato, ad un tratto il pupone ebbe un incontrollato impulso erotico, interruppe l'amica chiedendole di avvicinarsi. Nadia, molto sorpresa, si alzò dalla sua sdraio e andò su quella accanto al nostro eroe.
Non fece in tempo a sedersi che si ritrovo il pupone addosso. Sulle prime non capì e tentò di consolare il suo amico credendo fosse l'ennesimo attacco di tetraggine, poi si lascio andare, condividendo una violenza sorda, selvaggia e peccaminosa, che però non capiva.
Dieci minuti dopo erano nudi sul divano della cucina, due ore dopo, erano nudi, ma soli, nei rispettivi letti, un paio di buoni orgasmi e una splendida amicizia finita per sempre.
Il nostro eroe seppe da amici comuni, che il giorno seguente Nadia aveva raccontato tutto al marito, credo gliela abbia messa su un piano tra l'alcolico e il tenero e, piena di rimpianti, riprese il suo tran tran coniugale. Naturalmente il nostro eroe fu educatamente allontanato da tutto quel gruppo, non una telefonata da allora. Napoli, notte, estate 2000. Su un terrazzo del pallonetto di Santa Lucia, un ragazzo-uomo riflette sulla sua solitudine.
E' quasi nudo, mezzo ubriaco, oscenamente stravaccato su una vecchia sdraio, guarda un aereo che passa altissimo nel cielo stellato e lo segue con gli occhi finché non scompare, poi, osservando il colore cupo del suo palazzo sgangherato, incontra con lo sguardo un aereo, che però sta' atterrando.
Eroe: perché delle migliaia di persone che ho incontrato, me ne sono rimaste solo un paio?
***
Strano riprendere questo treno quindici anni dopo, dover accettare di avere ricordi tanto lontani. La circunvesuviana ha tre linee, la più famosa va a Sorrento, passando per Pompei e per i nodi importanti della provincia, le altre due raggiungono le meno note Baiano e Sarno.
Teresa era di Pompei, ma il nostro eroe logicamente inviso alla sua famiglia, scendeva alla fermata successiva: Villa dei Misteri.
Un romantico e isolato sentiero di campagna collegava la stazione a un parco isolato, dove aveva i suoi appuntamenti clandestini. Doveva seguire le rotaie per circa cinquecento metri, poi il sentiero: un intricato labirinto che attraversava da vero impostore.
Teresa lo aspettava su una panchina, indifferente ai rimproveri materni aveva più volte rinnovato la sua fiducia al pupone, anche in frangenti poco convincenti, sempre serena, lo aveva riaccolto con amore, dopo vari tradimenti e, a lei incomprensibili, tormenti.
Quella sera il nostro eroe si sentì tanto crogiolato nel suo personaggio decadente, che, quasi per gioco, iniziò a volteggiare con parole non sue sull'impossibilità di continuare la loro relazione. Non era assolutamente andato da lei con quell'intenzione, tutt'altro, ma quel crepuscolo di campagna, il sapore genuino e puro di Teresa, gli fecero avere paura e sospettare che lui non doveva essere lì. Molti, troppi anni dopo ha capito che quella nostalgia che lo turbò violentemente in quel tramonto agreste, non era un bisogno di fuga, ma una indomabile necessità di calore.
Teresa, già passata su troppe cose, con gli occhi pieni di lacrime ma decisi gli disse: "è l'ultima volta che mi prendi per il culo".
Non si sono mai più visti d'allora.
Villa dei Misteri: il treno è pieno, il nostro eroe sta andando ad una festa paesana con il suo amico Luca. Osserva la banchina piena di turisti, assecondando il lento movimento del treno che si rimette in moto. Avrebbe voglia di scendere, di sospendersi nel tempo, anche solo per alcuni secondi e rivedersi lì, seduto sulla soglia del mondo al tramonto, inorridito dalla dolcezza che lui stesso provava. Poi Luca, il grande bugiardo e ballerino di tammurriata, interrompe i suoi pensieri.
Luca: quegli occhietti, non mi freghi, chi è la pollastrella ruspante? Tanto lo so l'avrai morsicata e ti fa ancora male la bocca.
***
Giornata di luce e vento fresco di primavera, sei ragazzi di circa sedici anni sono seduti all'aperto ad un tavolino di un bar.
Un'istantanea finita per caso in mezzo alle carte, il nostro eroe se l'ha trovata tra le mani, in uno dei suoi vani tentativi di riordinare.
Lui è seduto al centro, cupo come sempre con una maglietta tipo lacoste verde e un pantalone arancione. Potrebbe sembrare ridicolo se non fosse per quello sguardo insolente. Gli altri sono gli amici più assidui di quel periodo di vita.
Ogni adulto in una simile occasione proverebbe sentimenti languidi, lui no.
La foto è pervasa da una strana tensione, come se già contenesse, in quelle fisionomie carine e un po' dannate, la miseria dei loro destini.
Cominciamo da destra: A. adesso è un commerciante grasso, putrido e cocainomane, dopo aver acquistato un diploma in ragioneria presso un'ambigua scuola privata, ha iniziato a lavorare con il padre e a fare collezione internazionale di puttane; B. è in America in una costosissima clinica di disintossicazione, l'ultimo contatto che ha avuto con il pupone non lo ha riconosciuto; C. è morto; D. è il nostro eroe; E. è Bobo, il gigolo; F. è Pippo il medico, l'unico che frequenta ancora.
E' una domenica mattina del 1983. Siamo in primavera o in autunno, il bar si trova in Via Petrarca, è uno di quei locali dove i camorristi riciclano il loro danaro sporco o alla peggio lo spendono.
I volti leggermente segnati indicano un sabato alle spalle movimentato, quasi tutti hanno in mano un caffè freddo, tranne A. e F. che bevono un Campari. Dovrebbe essere mezzogiorno.
La ricostruzione si ferma qui, il nostro eroe non riesce a ricordare altri particolari, le loro vite si separarono per caso come si erano incontrate.
La mamma di A., un'isterica troia, inventò la balla che E. la aveva scippata. Fu il suo nobile tentativo di elevare il figlio ad altre amicizie e di difendere l'onore della figlia quattordicenne deflorata dal furfante. Peccato che E. fosse innocente, perché un po' tutti credettero alla pazza.
Si nasce colpevoli.
Ripone la foto nel cassetto sbagliato e rinuncia al riordino generale. Va al telefono e chiama la mamma.
***
Una prigione può essere il massimo della libertà.
L'isola è brulla, venti case di pietra bianca e un castello. Il mare è di quelli belli come le facce strane e salate degli isolani.
Il nostro eroe è sudato, ma non puzza: il suo sudore ha un tasso di acidità variabile, i giorni che puzza di più sono quelli delle attese e del telefono.
Oggi è sudato di fatica e sole.
Sulla cima del castello c'è una chiesa bianca e bassa, a sinistra c'è una porticina di legno antico. Il nostro eroe entra senza bussare.
Una finestra all'estremità è sospesa tra il cielo e il mare, l'orizzonte lontano si confonde tra i due azzurri intensissimi.
Dentro la casa c'è un'altalena, un divano di pelle nera, un cassettone di legno austero, una vecchia macchina da cucire su cui è poggiato un piatto con dei pomodori freschi, una cornice ottocentesca senza tela, da cui spicca un pezzo del muro ed un mago che, in sottana e scalzo, si aggira danzando con un bicchiere di vino bianco in mano al ritmo della musica.
La canzone parla di una folle corsa in Ferrari, la voce è quella di Julio Iglesias: il mago spiega al fotografo che quella è l'unica canzone che Iglesias abbia scritto. Il pupone è incuriosito, non ama Iglesias ma quella è una canzone straordinaria. Decidono di ascoltare la versione spagnola, poi nuovamente quell'italiana. Intanto il nostro eroe appura che il mago è un giocatore accanito di scacchi e poker, amante delle donne e del vino, un po' giù dagli anni e dai vizi.
Il nostro eroe fa una trentina di fotografie al mago, riascolta una decina di volte la canzone della folle corsa in ferrari, beve un bicchiere di vino e si informa sulla vita del suo interlocutore.
Poi saluta e continua il suo giro, appena fuori dalla porta il mago gli chiede di lasciargli una bottiglia di vino pagata al bar.
Il nostro eroe è pidocchioso, ma non si tira indietro. Al bar una vecchietta furbissima gli racconta di quanto sia difficile avere a che fare con quello lì: "arriva anche con dieci persone e insiste per pagare lui, poi non ha mai una lira ed ho una lunga fila di sospesi".
Una volta a Napoli, il nostro eroe è impaziente di vedere le foto del mago, ma sono tutte completamente nere, in tanti anni di lavoro non gli era mai capitato di sbagliare un'intera pellicola.
***
Un uomo è al centro di una stanza spoglia e tetra, sarà circa trenta metri quadrati situati nel cuore della città. L'unico elemento di arredamento è una vecchia poltrona, dove l'uomo è seduto. Il suo abbigliamento è trasandato, quasi da povero. E' nato in quella casa quaranta anni fa. I genitori sono morti in seguito a una fuga di gas e lui, figlio unico, è cresciuto in istituto. Maggiorenne è tornato nell'unico posto dove poteva tornare: quel seminterrato, senza finestre con solo un lucernario da cui vede i piedi dei passanti, è la sua ancora terrena, la sua radice nel mondo. Da allora non esce quasi mai e solo per procurarsi un po' di cibo. Non ha la televisione, trascorre le giornate in poltrona ad osservare le gambe dei passanti. Ultimamente però si sofferma su un paio di gambe ben affusolate appartenenti alla padrona dell'attico sovrastante il palazzo. Le aspetta come un'apparizione, come una recondita speranza. Una volta, un paio di settimane fa, la bella signora incontrandolo nell'androne gli ha sorriso. Lui, su quel sorriso, sta costruendo un universo di sogni.
Quello che non sa è che la bella signora è un transessuale.
Eroe: riesce a scopersela?
Enzino: no.
Eroe: ma adesso che fa? Voglio conoscerlo.
Enzino: mica esiste, è una mia invenzione, un soggetto per un cortometraggio. Ne ho anche un altro: un uomo di quaranta anni scende dai quartieri spagnoli. I colori sono acidi. Vede Napoli con i nostri occhi, quelli dei poveri cristi. Osserva una barchetta in mezzo al mare e si avvia a Santa Lucia. Si avvicina ad un vecchio pescatore e rimane li ore a guardarlo. Il vecchio non pesca nulla.
Eroe: parlano?
Enzino: no. Ad un tratto il vecchio inizia a dimenarsi. L'uomo pensa che certamente starà per pescare qualcosa di grosso, ma trascorrono i minuti è ha l'impressione che stia per prendere un essere umano. La sensazione diventa certezza quando la sagoma esce fuori dell'acqua. Allora l'uomo si avvicina al vecchio e gli taglia la lenza. L'anziano guarda l'uomo e dice: è una vita che cerco me stesso e adesso, che lo avevo trovato, sei arrivato tu e lo hai liberato. L'uomo risponde: non ti preoccupare, sono io la tua coscienza.
Eroe: cazzo Enzino, altro che crisi del cinema italiano, peccato che sei un bifolco e che la New age napoletana è in mano a informi signorine di buona famiglia a cui tu puoi solo spacciare un po' di fumo.
***
Il nostro eroe è in saldi: per il prezzo che a Milano prendeva per una foto è andato fino in Calabria a fare un catalogo di tessuti.
Marina di Strongoli, esausto è affamato il nostro eroe divora un orribile panino al prosciutto che il generoso committente del lavoro gli ha offerto, le birre, peroni e piccole, sono calde.
Che cosa è il sud?
Il sud è Marina di Strongoli, sette chilometri di costa dove hanno costruito case sulla spiaggia demaniale e abili notai le hanno anche vendute, Il sud è il nostro eroe che per trecentomila lire più spese, panino rancido e birra calda è arrivato in treno da Napoli per fare un catalogo di trenta foto.
Non che sia poco rispetto a un polacco tuttofare, ma a Milano per lo stesso lavoro pagano almeno due milioni.
"Che odore di fogna, questi cacano sulla spiaggia, palazzi vuoti a tre piani, senza intonaco, tutto alluminio e plastica, i tetti in eternit. Cazzo il mobilificio... sette piani mai terminati, uno scheletro di cemento e ferro a dominare il paesaggio, a renderlo assolutamente ributtante."
Eroe: fa veramente schifo questo posto.
Committente: venivamo qui con la mia famiglia da sempre, avevamo una baracca di legno, poi negli anni ottanta abbiamo come tutti costruito questa casa. In dieci anni hanno distrutto tutto.
Eroe: ma è un cesso, perché non la vendi?
Committente: nessuno la vuole.
Finito il panino e le foto il nostro eroe torna a Napoli con un passaggio in macchina. Se non fosse per la solitudine e la vigliaccheria formerebbe un gruppo di eco terroristi per abbattere quelle "cose", non avrebbe assolutamente nessuno scrupolo morale. Un bombarolo gentiluomo che avverte le persone e non fa vittime: allontanatevi immediatamente che sta per saltare in aria sto cesso di villetta.
Sulla via del ritorno nello specchietto retrovisore vede il cielo farsi nero, ma non è notte.
Sono solo le 16, eppure scende il buio sulle villette.
Il giorno dopo legge sul giornale che sono morte venti persone in un campeggio da quelle parti, inghiottite dall'acqua e dal fango.
Il sud è un geometra che costruisce un campeggio sul letto di un fiume.
***
L'aspettava sempre imbronciato, era per via di quella maledetta passeggiata in barca a remi. Il padre tornava verso le otto e amava, nel mare calmo del tramonto, arrivare fino al cenito, osservare la luce sfumare sulla collina di posillipo e indugiare in conversazioni, troppo spesso a sfondo morale.
Il nostro eroe amava la televisione, era praticamente assatanato di tutto: cartoni, telegiornali, telefilm e sport. Quell'ora era troppo importante, l'ora clou delle programmazioni televisive, poi bisognava anche cenare.
Quella barchetta però era un pegno d'amore: il padre gliela aveva regalata in cambio della passeggiata serale. Circa quattro metri e mezzo, con la prua leggermente sproporzionata e di un colore blu intenso.
Aveva appena otto anni quando la ha avuta, ne aveva circa venti quando una mareggiata la distrusse. Era una tempesta estiva, il nostro eroe nel disperato tentativo di salvarla, coglieva inconsciamente che un pezzo della sua vita se ne sarebbe andato via per sempre. Non ne comprarono altre, il padre, già abbastanza acciaccato, rinunciò a quell'unico vizio.
Il nostro eroe, non portato per gli sport terresti, ma felino nell'acqua, aveva sfidato onde altissime e l'aveva raggiunta al largo. Tutti dicevano di lasciar perdere, ma non si scoraggiò, la legò ad una fune e torno a riva. Poi inizio a tirarla con violenza, lentamente stava vincendo lui. Ad un tratto, la barca era a circa dieci metri da lui, si accorse della inutilità di quello sforzo: la sua barchetta era distrutta, quasi scissa in due.
Si rituffò in mare e avuta la conferma della situazione, la slegò, lasciandola inerme seguire il suo destino. Attimi intensi come quelli che precedono una morte, poi il nulla, svanì sul fondo di quell'inquinato specchio di mare, trascinandosi con se la sua infanzia, i suoi sogni di potenza e di libertà e molto altro ancora.
Un'isola blu che lui dominava ventitré ore al giorno, tranne quell'ora, la passeggiata: i papà dei suoi amici a parlare di donne e macchine e lui intristito a guardare il mare, ascoltando quelle nenie sul senso della vita e della morte, sul dovere di un padre e quello di un figlio, su Dio.
Il padre si metteva sempre un completo di spugna verde scuro, sempre dannatamente lo stesso. Il pupone cresceva come un pirata: magro, strafottente e potente.
***
Esterno, notte, Piazza Santa Maria la Nova: ai tavolini di un bar tre ragazzi- uomini guardano le passanti.
Ricordate il terzo capitolo, la scena è uguali, i tre sono gli stessi, soltanto la piazza è meno affollata ed è passato un anno.
L'estate è finita, senti l'inverno arrivare sulle facce dei passanti, scolorire le fatue abbronzature, coprire senza nessuna pietà le gambe delle donne.
Le piazze si svuotano di vita, lentamente, come nell'agonia di un malato terminale che lascia dietro di se un lungo elenco di rimpianti, di cose non fatte o non dette, di persone da salutare.
Le mezze stagioni non esistono più, ripete monotonamente il suocero del nostro eroe, come se nella sua ingenuità avesse capito il segreto della nostra esistenza "post tutto": senti l'inverno, lo vedi nitidamente stampano nel potenziale pallore di un volto abbronzato, in una calda e piacevole serata di fine agosto.
Quest'estate i tre vitelloni sono stati più lugubri, una specie di terapia di gruppo li ha tenuti impegnati in conversazioni estenuanti e crepuscolari, spesso hanno addirittura rinunciato ad uscire, restando al buio sul terrazzo del Pallonetto ad accusarsi e perdonarsi.
Pippo ha trascorso tutti i giorni due ore a telefono con una ragazza della Germania, la ha conosciuta due mesi fa, chiacchierandoci un paio di ore. Andrea, paradossalmente invidia questa ingiustificabile tenerezza, lui che si spippa davanti al computer o si fa spompinare da qualche troia di passaggio, a pagamento o gratis.
Al nostro eroe le telefonate di Pippo sembrano un disperato S.O.S., lanciato nel cuore della notte dei tempi da un naufrago e casualmente raccolto da una turista di passaggio.
In questo senso non si stupirebbe se i due in breve tempo si sposassero.
Pippo: mio padre si è specializzato in Francia, il primo anno lì si è scopato novanta donne.
Andrea: adesso è un leone malandato, aspetta le prede nella sua tana, non le affronta più nella giungla: si siede e quando la preda è vicina l'azzanna.
Eroe: cazzo- stavamo a casa se dovevamo dire minchiate su don Lello- pensate che alla nostra età gigionava nei bar a parlare dei suoi genitori? Era già un uomo sposato e divorziato, padre di due figli, impunemente spensierato e gran puttaniere.
***
Un porco ricoperto di sangue, più precisamente è la pelle dell'animale ad essere scomparsa, lasciando indifesa la carne viva.
Alcune volte il porco è accompagnato da un uomo di mezza età, senza lineamenti, anch'egli con la carne scoperta.
Lo sfondo dell'immagine è neutro, quasi a sottolineare l'essenzialità della scena. Non accade nulla, non c'è dialogo e nessun movimento.
Il sogno si ripropone senza nessuna variante da quasi trent'anni, il nostro eroe da bambino lo accoglieva con terrore. Si svegliava e inventava degli inesistenti dolori alla schiena per non rimanere solo, costringendo la madre assonnata ad intrattenersi al suo capezzale. Donna dolce, ma di poca poesia non si sarebbe intenerita dall'incubo, solo il dolore concreto e fisico riusciva a coinvolgerla.
Con il passare degli anni, quella sconvolgente visione infantile divenne familiare, fino a perdere la propria mostruosità, diventando una sorta di icona della sua crescita.
Negli ultimi tempi, rovesciando ogni logica, il sogno è diventato il più piacevole tra suoi incubi, un regalo della psiche, che lo culla in un sonno quasi sereno. Di solito sogna altro. Il senso del nulla delle piccole cose: una interminabile fila in banca, avendo dimenticato allo studio l'assegno da versare; la lettura di un libro, che sul più bello si perde in innumerevoli pagine bianche e senza fine; l'attesa vana e infinita di una pizza alla pizzeria sotto casa, mentre l'alacre pizzaiolo serve tutti i monelli e le cafone del vicolo.
Nelle notti peggiori è la morte ad irrompere tra le lenzuola evidenziando i minimi particolari dei suoi sentimenti e delle sue debolezze. Allora si sveglia e cerca con la mano il corpo della moglie, nel più disperato possibile bisogno erotico. Quel contatto lo tranquillizza.
Notte, il nostro eroe è sudato dal caldo e dalla paura, è solo. E' la quarta notte che dorme tre ore e rimane rincoglionito tutto il giorno.
***
Non aveva mai più dormito lì e, comunque, era la prima volta che vagava da solo in quella casa. Si conosce abbastanza da evitare certe situazioni, ma come dire di no a sua madre, ad un favore cosi banale: "domani vado a trovare tua sorella, potresti dormire a casa non mi va di lasciarla incustodita, nel palazzo ad agosto non c'è nessuno.
" I conti con la morte, con la paura, con il caldo schifoso di questo quartiere di cemento borghese. Un buio fottuto, condomini affogati nel nulla, in qualche cesso di spiaggia affollata. Buio su me stesso, sul mio tempo, su questa cazzo di strada deserta. Palle, non mi piace neanche il calcio estivo, quelle finte partite senza passione. Eccomi, sudato e sporco a guardare la mia immagine allo specchio, nello stesso specchio dove ho imparato a vedermi crescere, ma dove non pensavo dover imparare a vedermi invecchiare o morire. Vietato barare. Vietato sovrapporre il languore del tempo, senza giudicarlo, senza giudicare questa cazzo di pancetta che non c'era. La paura di essere scoperto da qualche se stesso nel vano tentativo di difendersi. Di affermare che la vita uno se l'era immaginata proprio così com'è. L'ansia fino a vent'anni ha il sapore del sangue, ti scorre dentro, ma tu sai che è vita, che ti porta altrove. Invece eccoti qua, invecchiato e folle, con un ansia che adesso ha un sapore di birra sgasata.
Vietato barare se hai paura gioca al lotto: la paura fa novanta."
Il nostro eroe chiude l'anta dello specchio e si allontana dalla camera che fu sua da bambino, riflette un istante sul senso delle proporzioni, di come crescendo, tutti gli spazi sembrano più piccoli e le cose importanti della vita più grandi. Si siede al balcone. Il silenzio gli lacera il cuore, nulla, solo qualche indifferente macchina che scorre a tutta velocità.
A un tratto intravede una sagoma familiare in lontananza: è la pazza del quartiere che, ignara dell'agosto, cammina urlando come una belva ferita. L'osserva, soffermandosi velocemente su quell'esistenza solo apparentemente inutile.
Poi si alza felice e inizia ad urlare anche lui.
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Lei tagliava delle pesche, almeno così credo, per fare una sangria. Il giorno seguente sarebbe stato il suo compleanno, non alzava gli occhi dal piatto, forse aveva timore dello sguardo inquieto posato insistentemente su di lei. Sentiva quegli occhi sulla sua pelle come una carezza selvaggia, come un inconfessabile e disperato bisogno d'aiuto.
Fu quello il primo incontro fra il nostro eroe e sua moglie. Era il maggio del 94 non c'era la rivoluzione e l'aria della primavera odorava di morte.
Scambiarono poche parole, quasi monosillabi impacciati, il pupone contemplava quella donna seduta in mezzo al prato intenta a preparare una sangria come se fosse una visione, una specie di sogno.
Invece era li, poteva annusarne il forte odore di donna che emanava, come un fiore di primavera, forse l'unico fiore dell'unica primavera possibile nel cupo declino di questo millennio.
I fatti successivi furono meravigliosamente banali, i due inermi, quasi senza accorgersene si ritrovarono in pochi mesi sposati.
Non aveva mai pensato di fare un figlio, non se ne sentiva e non se ne sente all'altezza, ma le poche cose importanti nella vita di un uomo le sceglie il suo uccello, che aveva, sin dal primo incontro, un urgente bisogno di venirle dentro, come un albero deportato che vuole mettere radici in una terra lontana, umida e necessaria.
Eccolo lì il nostro eroe, all'aeroporto di Capodichino, invecchiato e leggermente appesantito da questi sei anni, di cui alcuni valgono doppio, i capelli venati da un bianco sempre più insistente. Sala arrivi, leggermente incazzato dal ritardo del volo, ad aspettare la moglie e i due figli.
Un uomo solo, dall'aspetto più rispettabile di un tempo, che dondola nervosamente fumandosi una sigaretta. Chi è?
Nell'apparenza e nei fatti nessuno.
Abbiamo seguito le sue riflessioni, condiviso segreti e incontri, ma non siamo riusciti ad inquadrarlo nella sua complessità di uomo perso nei meandri di quest'ignobile era glaciale.
Nell'apparenza e nei fatti nessuno.
Uno dei circa diecimila "passaggi umani" quotidiani nell'aeroporto di Capodichino, un padre ansioso, un marito affettuoso e un buon fotografo.
La vita è più semplice e bella dei sogni.
nota mia: alienare una vita vuol dire fare della guerra strumentalizzando la meschinità; questa forma comportamentale tipica della gente volgare è un modo molto diffuso, oggi come oggi, ma forse da sempre, per intaccare e portare nel conflitto gli individui che invece si dedicano alla semplificazione ed al superamento delle barriere sia mentali, sia psichiche, sia affettive, sia razionali. Non c'è modo migliore per avvelenare le acque che queste subdole e tossiche guerriglie fra punti di vista, convinzioni ignoranti, vere e proprie fantasticherie popolari prive di esperienza reale. Detto ciò , il racconto è carino e merita..
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